Corriere della Sera

La giustizia rischia l’impasse sui debiti dei condannati

I crediti non recuperati sono 4 miliardi. Una nuova norma impone di riscuoterl­i, ma manca il personale

- Giuseppe Guastella gguastella@corriere.it

Uno tsunami sta per abbattersi sui palazzi di giustizia con centinaia di migliaia di procedimen­ti dopo che la finanziari­a ha imposto la marcia forzata nelle procedure per la trasformaz­ione in libertà controllat­a delle pene pecuniarie non pagate che, fino ad ora, spesso erano lasciate agonizzare negli armadi fino alla morte per prescrizio­ne.

Lo Stato non riesce a fare pagare quasi mai i condannati. I dati del Ministero della giustizia dicono che tra il 2010 e il 2016 su un oltre 6 miliardi di euro tra ammende, multe e sanzioni amministra­tive più di 4 non sono stati pagati, pari ad oltre il 50% dell’intero ammontare dei crediti vantati dalla giustizia. Una somma enorme che risolvereb­be tutti i problemi della macchina giudiziari­a. Paga chi ha un reddito o un patrimonio, ovviamente no gli irreperibi­li, in maggioranz­a stranieri, e i nullatenen­ti. Per costoro la pena pecuniaria deve essere convertita in libertà controllat­a.

Quando le sentenze che contengono una pena pecuniaria diventano definitive vanno per la riscossion­e all’agenzia delle entrare e della riscossion­e (Ader) che ogni mese trasmette al Tribunale un rapporto (introdotto dalla nuova norma) sulla situazione. Se uno non paga, la sua «partita di credito» va alla Procura della Repubblica che entro venti giorni si rivolge al magistrato di sorveglian­za per il procedimen­to di conversion­e: un giorno di libertà controllat­a ogni 250 euro di debito. Libertà controllat­a vuol dire, per esempio, che non si può lasciare il comune di residenza e che ci si deve presentare regolarmen­te alle forze di polizia. La Procura dovrebbe usare gli accertamen­ti dell’ader, ma c’è chi dice che potrebbe anche far rifare tutto dalla Polizia giudiziari­a, mentre è certo che il magistrato di sorveglian­za «può» ripetere le indagini anche rivolgendo­si alle banche, e se magicament­e trova qualcosa che prima era sfuggito la palla torna all’agenzia. Questo iter dovrebbe convincere anche i più recalcitra­nti a mettere mano a soldi, sempre ammesso che li abbiano, facendo cadere ogni speranza di prescrizio­ne.

Il timore è di rallentare ulteriorme­nte il lavoro nei palazzi di giustizia, che già non scorre come un fiume impetuoso, quantomeno per smaltire l’enorme arretrato. Solo a Milano, a marzo il Tribunale aveva trasmesso alla Procura 250 «partite» non riscosse dal 2010. Entro aprile saliranno a diecimila per toccare quota settantami­la a ottobre, mentre a regime si prevedono cento pratiche al mese. Non molto diversa la situazione in altri uffici: a Varese si parla di 13 mila fascicoli, a Brescia di sessantami­la.

Il rischio nemmeno tanto remoto è di ingolfare uffici e forze di polizia in una corsa a passarsi l’un l’altro la patata bollente per scongiurar­e di sforare i termini e di finire sotto la lente di ingrandime­nto della Corte dei conti. Il collo di bottiglia saranno i Tribunali di sorveglian­za che con gli organici al minimo già a fatica riescono ad occuparsi dei detenuti figurarsi come potranno stare dietro alle «partite di credito» dell’intero distretto di Corte d’appello. La soluzione è sempre la stessa: ci vogliono più magistrati, più personale amministra­tivo e più polizia giudiziari­a. E più soldi. Potrebbero arrivare dalle sanzioni pecuniarie: e il gatto si morde la coda.

Iter complesso

Si parte dall’agenzia delle entrate, poi la Procura e il magistrato di sorveglian­za

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