La biblioteca di Umberto Eco non sia separata dal suo archivio
Nella contesa tra Milano e Bologna sulla biblioteca di Umberto Eco, la prima buona notizia è che la famiglia ha deciso di prendersi il tempo necessario per riflettere. La seconda è che comunque la ricchissima collezione libraria del semiologo -narratore rimarrà in Italia. Sorprende però che le opinioni emerse qua e là sulla collocazione migliore non abbiano tenuto conto di una premessa fondamentale: la biblioteca di lavoro di un autore (con le postille e gli appunti di lettura) non andrebbe mai separata dal suo archivio (materiali autografi ed epistolari), essendo parte integrante dell’attività creativa e/o di ricerca dello stesso scrittore. Lo sanno bene i centri di studio più importanti, come la Fondazione Mondadori, il Gabinetto Vieusseux, il Fondo dell’università di Pavia. L’appassionante dibattito sul futuro dei libri di Eco (almeno 35 mila volumi) non può dunque prescindere dal destino delle carte: perché le due sezioni vanno considerate inseparabili tanto più per un intellettuale «metaletterario» e postmoderno, che faceva interagire le conoscenze dello studioso con l’opera del narratore e che riversava le une nell’altra senza soluzione di continuità. Insomma, l’ente pubblico o privato che si farà carico del patrimonio librario di Umberto Eco dovrebbe garantire un progetto complessivo che non sia la sola prestigiosa custodia e catalogazione dei volumi ma anche la promozione degli studi filologici sulle carte. E certo in questa chiave dispiacerebbe che venisse davvero messo in vendita (separandolo dal resto) il corpus più prezioso dei volumi antichi, che testimoniano non soltanto i raffinati gusti del bibliofilo ma anche le passioni dell’intellettuale. Per uno strutturalista come Eco, le singole parti della sua attività facevano necessariamente parte di un insieme coerente in cui, come diceva un famoso linguista, «tutto si tiene». E tutto dovrebbe tenersi anche post mortem.