GLI ELEMENTI DI CONTINUITÀ NEL VENTO DI CAMBIAMENTO
Scenario Le recenti elezioni hanno dato una forte scossa al nostro panorama politico. Ma il corpo sociale tende a difendere il suo lungo andare: bisogna tenerne conto
I l recente risultato elettorale ha certo sferrato una «botta di discontinuità» al panorama sociopolitico italiano. È naturale che i due vincitori del 4 marzo abbiano l’interesse e l’intenzione di continuare a cavalcare in avanti la frattura che si è creata; ma è altrettanto naturale che si vadano esplicando impulsi di un suo più o meno lento assorbimento, magari sottotraccia rispetto alle schermaglie per la formazione del nuovo governo.
In altri tempi avremmo parlato del ritorno di un ricorrente trasformismo, ma quel che avviene oggi è un fenomeno ben altrimenti complesso, perché non è vicenda solo parlamentare, ma coinvolge una vasta gamma di rapporti socio politici, attraverso l’esercizio oggi più in voga del «chi scala chi». Guardandosi intorno si rilevano fenomeni paralleli: Lega e M5S scalano insieme un nuovo assetto di potere, di rinnovato e più solido bipolarismo; in contemporanea la Lega scala Forza Italia per creare un centrodestra a guida unitaria, senza frange di interessi particolari; intanto molte associazioni di categoria, anche quelle più potenti, vanno alla ricerca dei nuovi canali e dei nuovi personaggi del potere, per riposizionare le loro specifiche domande ed attese; ed addirittura la più prestigiosa élite italiana, quella arroccata nel settore dei beni culturali, si allinea esplicitamente ai vincitori del 4 marzo, pensando di poter mantenere la propria tradizionale ipoteca sul settore. Per non parlare del mondo della comunicazione, da sempre attento ad orientare per tempo i trend del potere politico, piuttosto che subirli.
Tutti scalano qualcuno, ma la cosa avviene in modo così visibile da non destare reazioni critiche, neppure di moralità civile. Ma gli assestamenti più delicati nel nuovo potere non sono quelli riscontrabili alla luce del sole, ma piuttosto quelli sommersi, quasi invisibili. Si tratta delle centinaia di piccole, silenziose scalate avvenute
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Gli assestamenti più delicati nel nuovo potere sono quelli sommersi, quasi invisibili
in periferia, in centinaia di spesso sconosciuti collegi uninominali. Il tipo di legge elettorale ha di fatto favorito una grande ventata di opinione, per cui in tanti collegi ha vinto non una persona, ma piuttosto un «brand» politico-elettorale. Ma chi c’è dietro quel brand? Certo, non un tradizionale partito e neppure un tradizionale capofila portatore di voti (la maggior parte di essi è stata sbaragliata da una potente opinione collettiva); ma verosimilmente ci sono dentro tanti piccoli gruppi locali (magari anche amicali) che hanno puntato sulla lista che si andava imponendo.
Ora, se i detentori dei brand vincenti riescono a ricondurre tutto e tutti all’obbedienza di gruppo (come ad esempio è avvenuto a Roma) allora tutto è accettabile, anche se ripropone un centralismo democratico di antica memoria; se invece non ci riescono (cosa possibile, quando si tratta di centinaia di eletti, e senza adeguati filtri all’origine) allora sarà difficile capire «chi deve obbedienza a chi». Si rischia che vincano svariati interessi locali, vogliosi di coltivare un forte potere di condizionamento delle scelte politiche generali. È successo spesso in passato, specie nel Sud, dove la politica è abituata a dipendere dalle pulsioni locali; e dove le forze politiche oggi vittoriose si potrebbero ritrovare con centinaia di eletti sconosciuti ai più, di fatto tentati di restare impigliati negli interessi e poteri locali che hanno scommesso sul brand che li ha fatti eleggere. Basterà ricordare cosa lustri fa avvenne in Sicilia con i successi totalitari o quasi di Martelli e Miccichè, che ben usarono i brand allora di moda, ma che non tradussero poi in potere reale, sfiorendo nella consultazione elettorale successiva.
Chi voglia allora dare al Paese una sana scossa di discontinuità dovrà tenere conto che il corpo sociale italiano è nei fatti molto più continuista di quanto le cronache tendano a pensare: difende con sicurezza il suo lungo andare, ma tende ad usare aggiustamenti di storica solidità ma anche di pericolosa ambiguità. Non sono quindi ammesse né glorificanti propensioni al «nulla sarà come prima», né l’indulgere all’antica propensione al continuismo come vocazione collettiva e destino storico.