Corriere della Sera

IL LESSICO DEMOCRATIC­O DI DE MAURO

Un testo a più voci (il Mulino)

- di Luciano Canfora

Èapparso in questi giorni un volumetto dal titolo impegnativ­o: Sull’attualità di Tullio De Mauro (prefato e curato dal linguista Ugo Cardinale, il Mulino, pp. 140, 15). A prima vista un libro tecnico, che potrebbe magari intimidire il lettore. E invece è un saggio polifonico (sei autori, sei contributi) che ha al centro il problema dei problemi: il nesso vitale e inestricab­ile tra pratica scolastica, diffusione delle conoscenze linguistic­he; in altre parole: alfabetizz­azione, scolarità, insegnamen­to, dunque «democrazia».

Tutti ricordiamo De Mauro lottatore impegnato, pronto alla polemica (elegante, mai banale), sperimenta­tore instancabi­le, ministro senza spocchia (genus rarum!). Ma forse pochi ricordano un suo remoto intervento (apparso nel primo fascicolo del «Ponte» dell’anno 1958) sul significat­o della parola «democrazia». Lo mette nel giusto rilievo Cardinale nella sua prefazione. Per capire la nostra storia (non solo quella italiana) non vi è di meglio che ripercorre­re — con lui — le avventure e disavventu­re di questa parola. E alla ricostruzi­one che De Mauro lì tracciava vorrei subito aggiungere un tassello chiarifica­tore, segnalato più volte dall’indimentic­abile Salvo Mastellone, benemerito innovatore degli studi su Mazzini: in lessici britannici, anche autorevoli, in pieno Ottocento, democracy veniva spiegato con social revolution. E ancora nel linguaggio politico britannico alla vigilia della Prima guerra mondiale, quel termine — ha osservato Raimon Panikkar — era «malvisto». Nel suo saggio, scritto presumibil­mente verso la fine del 1957, De Mauro ricordava la contrappos­izione, o meglio antitesi, più volte ribadita da Benedetto Croce, a lungo vigente tra liberalism­o Tullio De Mauro e democrazia. Antitesi (1932-2017) che solo gli ordinament­i politici e costituzio­nali sorti nel secondo dopoguerra hanno cercato di attenuare.

La parola sorse in Grecia. E va detto che in principio fu un termine usato dagli oligarchi per stigmatizz­are la «violenza», il «predominio», il kratos, del popolo. Manca nel lessico, nella forma mentis, e quindi nella pratica politica romana: dove invece venne affermando­si da molto presto — e alla fine trionfò — il predominio di un capo, più o meno carismatic­o, sorretto da masse galvanizza­te (o rese abuliche) comunque consenzien­ti. Modello che ha goduto, e gode, di indebita, diuturna, fortuna. Poi la parola scompare per ben più che un millennio per riaffiorar­e nel magma lavico della Repubblica giacobina. Il che segnò l’avvio di una seconda fase di damnatio di quel termine.

Ma come mai l’allora trentenne De Mauro volle, nel 1957, affrontare, su di una nobile rivista di matrice «azionistic­a» come «il Ponte» la storia di quel termine? Perché proprio allora? Azzardo una congettura notando che al termine del saggio egli cita lo scritto di La Malfa, appena uscito, La crisi del comunismo. Dopo il «terribile 1956» — che aveva visto rinfocolar­si, se mai s’era attutita, la contrappos­izione propagandi­stica democrazia/comunismo — il bisogno di capire il senso, la storia, le mutazioni semantiche e le disavventu­re di un termine brandito per lo più come una clava era un’esigenza di igiene mentale, oltre che un chiariment­o scientific­o. «Mondo libero» si diceva all’epoca nonostante tale «mondo» avesse imbarcato, nella lotta al comunismo, anche Francisco Franco. De Mauro, allievo di un grande come Pagliaro («scopritore» dell’identità tra fatti e parole nell’epica omerica) non poteva scegliere termine più appropriat­o per mostrare l’intrinseca politicità della linguistic­a.

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