Il Colle e l’ipotesi del terzo nome
L’ipotesi del «terzo uomo», il Colle però non farà nomi
La politica del surplace, come nel ciclismo su pista. Però Mattarella non ha intenzione di tirare per le lunghe. E per il Quirinale lo scenario M5s-lega resta il più probabile. a pagina
La generazione di Sergio Mattarella ricorda di sicuro i duelli, negli anni 60, tra due star della velocità su pista: Maspes e Gaiardoni. Sfide giocate sul surplace, la tecnica di stare fermi in equilibrio sulla bicicletta, senza poggiare i piedi a terra né retrocedere, aspettando l’attimo per attaccare l’avversario e sorprenderlo (il record, di un certo Del Zio, superò le due ore).
Dal 4 aprile, giorno in cui sono cominciate le consultazioni al Quirinale, è la politica a trovarsi in surplace. Non a caso, la logica dei partiti somiglia molto a quella che ispirava i vecchi campioni del velodromo Vigorelli di Milano. E cioè: sfinire nella tensione gli antagonisti e muovere di scatto l’offensiva, per tagliare alle proprie condizioni il traguardo di un accordo solo all’ultimo istante dell’ultimo minuto utile.
Chi ragiona così fa però i conti senza il Quirinale, e quindi sbaglia. Perché il presidente della Repubblica non ha intenzione di vedere il gioco trascinato senza frutto alle calende greche. Se verificherà che i negoziati procedono, con fatica ma procedono, darà il tempo necessario a siglare un’intesa. Del resto glielo hanno chiesto tutti. Ma lo stallo inconcludente, il surplace studiato come pretesto per tornare di corsa alle urne (e indipendentemente da ciò che una simile scelta può costare al Paese), quello non lo concederà. A un certo punto, anche per stimolare gli attori in campo a chiudere, dirà basta. Anche se, come il Corriere ha segnalato più volte, resta assolutamente contrario a nuove elezioni subito.
Ecco lo spirito con cui il capo dello Stato si prepara al secondo sondaggio con le forze politiche, che dovrebbe cominciare giovedì o venerdì e avrà il carattere di una prova d’appello per registrare la stasi o i progressi delle trattative. Insomma, gli attori devono rassegnarsi: «Due blocchi sui tre disegnati dal voto devono stringere un patto di maggioranza», ha detto Mattarella, altrimenti non se ne esce. Perciò è ovvio che, considerata la paralisi decisionale del tormentatissimo Pd, sul Colle ora ci si concentri soprattutto sul percorso imboccato da Lega e Movimento 5 Stelle, che al momento appare il fronte più avanzato verso un’alleanza. Nel perimetro di questo schema, domenica ad Arcore si è ripetuto l’eterno gioco degli specchi della politica, mentre qualcuno nel centrodestra sembra fare tattica sulle prossime elezioni regionali, la cui evocazione potrebbe essere unicamente un pretesto nella prova di forza in corso.
E qui lo stesso Mattarella sta misurando il peso della questione Berlusconi, che ha alimentato ieri un duro battibecco tra Salvini e Di Maio, divaricandone le posizioni. Dinamiche sulle quali qualcuno (cioè l’ex Cavaliere) dovrebbe forse fare pace con se stesso e orientarsi su un accomodamento diverso dall’ingresso in maggioranza, per non farsi escludere dalla partita. E l’appeasement potrebbe magari essere l’offerta di un appoggio esterno. Chissà.
È un’opzione di cui si parla molto, ma sulla quale resta nebbia fitta. Come su altre variabili che chiamano in causa Mattarella. Due su tutte: che cosa farà per tirare in lungo questa fase, se fosse indispensabile per non chiudere la legislatura appena nata? E poi, davanti all’ipotesi che il premier sia una terza persona (magari con più esperienza e maggiore standing in Europa) rispetto ai «pretendenti» Di Maio e Salvini, potrebbe imporre lui una simile figura?
Quanto al primo punto, il capo dello Stato, pur avendo messo in preventivo un paio di mesi, non s’inventerà nulla rispetto al rito delle consultazioni. Potrebbe offrire un terzo giro al rallenty, ma certo non rianimerà la «commissione di saggi per il programma» insediata da Napolitano nel 2013 per lucrare una quindicina di giorni dopo il fallimento di Bersani. Quanto all’altra domanda è difficile che il capo dello Stato formuli lui un nome ai propri interlocutori. Potrebbe, ma non lo farà. Per com’è andato finora il primo giro al Quirinale, bisogna immaginare una interlocuzione dinamica, nella quale le forze politiche sanno di poter contare su un’istanza costituzionalmente di garanzia cui rivolgersi qualora il negoziato si impantanasse. È lo stesso schema dei cosiddetti governi tecnici, che in realtà sono sempre politici in quanto non imposti ma votati dal Parlamento.