Europa debole e lenta Così il leader magiaro ha dettato la sua linea
Il Ppe dovrebbe fissare un limite chiaro
D omenica notte, sulle rive del Danubio, Viktor Orbán ha festeggiato davanti a migliaia di militanti la sua vittoria più inattesa, ma anche quella più densa di significati non solo per la piccola Ungheria ma per tutta l’unione europea. Conquistando il terzo mandato consecutivo, nuovamente con una maggioranza costituzionale dei due terzi, il tribuno magiaro assume di fatto la leadership della destra identitaria in Europa e manda un avvertimento a Bruxelles.
All’interno, Viktor Orbán non sembra avere alcuna intenzione di mettere un freno alla sua deriva autoritaria, eliminando garanzie e contrappesi e aumentando il controllo sui media. Del resto, era stato chiaro il 15 marzo scorso, quando aveva promesso «altri cambiamenti morali, politici e giuridici»e aveva detto di volersi «vendicare» degli oppositori.
All’esterno, un anno esatto dall’elezione di Emmanuel Macron all’eliseo, che aveva ridato speranza e dinamismo alle forze europeiste, Orbán con il suo trionfo suona la riscossa per i movimenti populisti. Molto più del risultato di ottobre in Austria, dove Sebastian Kurz è sempre stato attento a ribadire la vocazione europea del suo governo, quella conclusasi a Budapest è infatti la prima campagna elettorale in un Paese della Ue combattuta e stravinta non solo «in guerra» contro Bruxelles, ma anche grazie a una narrazione apocalittica e ossessiva, fatta di milioni d’immigrati islamici alle porte dell’europa cristiana, finanzieri senza patria che cospirano contro il Continente in nome di un multiculturalismo senza valori. Un compact di pensiero e azione, che si vuole manifesto e canovaccio per tutte le forze sovraniste.
È una sfida che va presa molto sul serio dall’unione europea, i cui valori fondamentali Orbán mette in discussione teorizzando e praticando la sua «democrazia illiberale». Finora Bruxelles, molto dura con le violazioni dello Stato di diritto in Polonia, ha preferito una sorta di «appeasement» con il premier ungherese, sia in ragione delle piccole dimensioni del Paese, sia perché Orbán e il suo Fidesz godono di una sorta di protettorato del Partito popolare europeo, di cui sono membri. Ieri, agli auguri dei nazionalisti polacchi, di Marine Le Pen e del leader di Alternative für Deutschland, Alexander Gauland, si sono aggiunti quelli del ministro degli Interni tedesco e leader della Csu bavarese, Horst Seehofer, e del capogruppo del Ppe all’europarlamento, Manfred Weber.
Ma la vittoria di domenica cambia lo scenario. E forse è venuto il momento per la famiglia politica di Angela Merkel di tracciare una chiara linea rossa, condannando la «xenofobia platonica» di Orbán e facilitando l’adozione di misure punitive contro le leggi autoritarie o il rifiuto della solidarietà dovuta ai partner.
Non sarà facile. Soprattutto perché c’è un aspetto meno visibile e un po’ inconfessabile nel successo di Viktor Orbán. Criticato da partiti e governi europeisti, additato da Bruxelles come l’esempio da non seguire, il tribuno magiaro in realtà ha già cambiato il paradigma del dibattito europeo in tema d’immigrazione. Di fatto, senza dirlo e senza teorizzarlo, molti governi della Ue di destra e di sinistra si muovono già sulla sua falsariga. Seehofer ne è la dimostrazione plastica. Per evocare un’immagine pannelliana, aborrito come modello di potere, l’orbanismo ci domina come cultura.