Corriere della Sera

Ucciso da una bomba nell’auto Aveva litigato con i parenti del boss

Vibo Valentia, morto un 42enne che era stato candidato al Comune. Ferito il padre

- Carlo Macrì cmacri@corriere.it

LIMBADI (VIBO VALENTIA) È stato divorato dalle fiamme che gli hanno impedito di uscire dall’abitacolo dell’auto, dopo che una bomba, sistemata sotto la vettura, aveva fatto saltare in aria la Ford Fiesta alimentata a metano.

È morto così Matteo Vinci, 42 anni, ex rappresent­ante di medicinali con alle spalle un tentativo di entrare in politica svanito sul nascere nel 2015, quando si era candidato per un posto di consiglier­e comunale nel suo paese, Limbadi, nell’entroterra di Vibo Valentia. Suo padre Francesco, 73 anni, che era seduto in macchina di fianco a lui, ha riportato diverse lesioni ed è rimasto ustionato gravemente. Ha fatto solo in tempo a chiamare aiuto e poi è svenuto.

Il teatro di questo agguato dai connotati mafiosi è stata una strada sterrata in località Cervolaro, nel comune di Limbadi, uno dei primi ad essere sciolto per «cattiva gestione» quando ancora non era entrata in vigore la legge sulle infiltrazi­oni mafiose nequirenti gli Enti pubblici. Il paese è da sempre sotto i riflettori dell’antimafia, per via della presenza dei Mancuso, una delle ‘ndrine più autorevoli con ramificazi­oni anche fuori dai confini regionali. Nei mesi scorsi il Prefetto di Vibo Guido Longo ha inviato la Commission­e d’accesso per accertare se esistono condiziona­menti mafiosi dentro il palazzo comunale.

Non c’è al momento una pista precisa che porta gli in- a ipotizzare possibili moventi sull’agguato. La vittima e il padre non erano persone che gravitavan­o in ambienti mafiosi. Sul loro passato, però, c’è l’ombra di una carcerazio­ne, sia pure per poco tempo. In galera a marzo del 2014 finirono infatti Francesco Vinci, suo figlio Matteo e la madre Rosaria Scarpulla. Con loro hanno varcato le porte del carcere di Vibo anche Rosaria Mancuso, 67 anni, sorella dei capi cosca Pantaleone («Luni») e Giuseppe Mancuso, quest’ultimo ergastolan­o, il marito Domenico Di Grillo e la figlia Lucia.

I Mancuso possiedono dei terreni adiacenti a quelli della famiglia della vittima. Tra i Vinci e i Mancuso all’epoca ci fu una violenta discussion­e per problemi relativi a questioni di confini. O forse — come stanno accertando gli inquirenti — di richieste di acquisizio­ne da parte dei Mancuso dei terreni dei Vinci. Che non volevano per nessuna ragione vendere i propri possedimen­ti.

L’ordigno utilizzato per far saltare in aria l’auto di Matteo Vinci, hanno accertato gli artificier­i, era ad alto potenziale. E probabilme­nte potrebbe essere stato azionato con un telecomand­o a distanza. In questo territorio non si era mai arrivati a tanto. Per capire queste nuove dinamiche ieri sera il prefetto di Vibo ha convocato d’urgenza il Comitato provincial­e per l’ordine e la sicurezza.

Proprio ieri i magistrati di Catanzaro hanno emesso un provvedime­nto di fermo per sette persone (tra cui due donne) eseguito dalla polizia per interrompe­re una catena di sangue in una faida che ha fatto già, a Sorianello, nel Vibonese, decine di morti. Le donne, in particolar­e, spingevano i propri mariti e figli a organizzar­e gli agguati. «Dovevamo noi nascere maschi — dicevano, intercetta­te —. Dovete essere crudeli con i nostri avversari».

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I rottamiVig­ili del fuoco e inquirenti sul luogo dell’attentato a Limbadi, nel Vibonese, in cui è morto Matteo Vinci, 42 anni
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