Dalla cosca un messaggio terroristico
C’era un obiettivo, ma probabilmente anche un messaggio, nella bomba-killer esplosa ieri a Limbadi. I sospetti sul clan Mancuso, la tentacolare famiglia di ’ndrangheta che controlla quella porzione di territorio nel vibonese, sono scattati come una sorta di riflesso condizionato; prima ancora delle notizie su rapporti contrastati tra la vittima e vicini che portano quel cognome. Ma le indagini sono solo all’inizio, e ci vorrà molto altro per attribuire qualche responsabilità. Tuttavia di una cosa si può difficilmente dubitare: che un’azione tanto eclatante sia sfuggita a quella che pure nell’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia viene descritta come «la potente cosca che esercita una diffusa e consolidata egemonia nella provincia di Vibo Valentia». Undici figli da cui sono discesi quasi altrettanti gruppi criminali dediti al traffico di droga e altre attività criminali, anche a livello internazionale. Al di là del movente, aver messo una bomba sotto la macchina della vittima, anziché ricorrere a sistemi più «convenzionali», assume il significato di un segnale di stampo terroristico lanciato dagli assassini: a potenziali altri soggetti d’intralcio agli affari del clan, ma anche a cosche avverse che volessero mettere in dubbio la «consolidata egemonia». Di cui in passato c’era stato qualche segnale. E infine allo Stato che proprio ieri, attraverso le parole del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, aveva ribadito l’esigenza di «riprenderci con più determinazione e con più forza, con maggiore vigore, il territorio dell’intera provincia di Vibo». Un’esigenza che, dopo la bomba, si fa ancora più urgente.