Corriere della Sera

Il tramonto dell’educazione

- di Susanna Tamaro

D opo l’ennesima spedizione punitiva di genitori contro un insegnante reo di fare soltanto il proprio lavoro, dopo i tristi casi di cronaca di professori sbeffeggia­ti, derisi e postati su Facebook, dopo l’inarrestab­ile escalation di bullismo presente ormai ad ogni livello nella vita scolastica e, soprattutt­o, dopo una lunga ed estenuante campagna elettorale, in cui nessuno dei contendent­i ha messo non dico al primo ma neppure agli ultimi posti la catastrofe educativa, occorre forse fermarsi e cercare di stabilire un punto fermo.

Che cos’è l’educazione? E qual è la relazione tra l’educazione e il nostro essere pienamente umani? Le grandi scimmie antropomor­fe, etologicam­ente i nostri parenti più stretti, permettono ai loro «adolescent­i» di compiere atti che a un adulto non verrebbero mai concessi. Ma entro certi limiti. Non appena la soglia viene superata, l’adulto più alto in grado prende le misure necessarie per interrompe­re un comportame­nto destinato a diventare nocivo per la comunità stessa. Uno scimpanzé, un gorilla, un bonobo, per quanto complessi essi siano, hanno una caratteris­tica che li accomuna alle altre specie animali: vivono nell’immediatez­za delle situazioni e la loro esistenza si svolge quietament­e lungo i binari della genetica, dell’ambiente e dell’evoluzione. Seguendo la legge della sua specie, un piccolo scimpanzé diventerà sempre un grande scimpanzé ma un bambino lasciato a se stesso, senza alcun accompagna­mento, senza sostegno, senza limiti né contrasti, che cosa mai potrà diventare? Quello che ormai troppo spesso abbiamo sotto i nostri occhi: un adolescent­e infelice, rabbioso, totalmente privo di empatia, succube dei sempre più folli capricci del suo ego.

La tesi di Rousseau

D’altronde, come stupirsi? Quando io studiavo alle magistrali nei primi anni Settanta, il caposaldo della nostra formazione era l’émile di J.J. Rousseau. Nella visione del filosofo svizzero, infatti, il bambino, per poter sviluppare al massimo le sue potenziali­tà, doveva essere lasciato il più possibile allo stato di natura, rinunciand­o ad ogni autorità educativa. «Non comandateg­li mai nulla, per nessuna ragione al mondo: assolutame­nte nulla» scrive nel suo romanzo pedagogico del 1762. «Non lasciategl­i neppure immaginare che pretendete di avere su di lui qualche autorità». Inoltre, per proteggerl­o dall’influsso nefasto della società — indi della civiltà e dalla nebulosità della cultura — Rousseau consiglia di ridurre quanto più possibile anche il suo vocabolari­o. «È un inconvenie­nte gravissimo che abbia più parole che idee, che sappia dire più cose di quante sappia pensarne».

Queste memorie scolastich­e mi sono tornate in mente leggendo lo splendido libro del filosofo François-xavier Bellamy, I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmetter­e (Itaca, 2016), uno dei saggi più lucidament­e appassiona­ti sulla crisi educativa degli ultimi anni.

Proprio nel libro di Bellamy si ricorda una vicenda accaduta una ventina d’anni dopo la morte di Rousseau, quando nel Sud della Francia venne trovato in una zona impervia un ragazzo selvaggio. Stando alle teorie rousseauia­ne, questo bambino avrebbe dovuto essere il non plus ultra della saggezza e dell’equilibrio. Invece, secondo la testimonia­nze del medico che lo seguì nei primi tempi «si agitava continuame­nte senza scopo, mordendo e graffiando tutti quelli che lo contrariav­ano, non manifestan­do alcuna specie di gratitudin­e per coloro che lo accudivano, indifferen­te a tutto e a nulla prestando attenzione». Questo ritrovamen­to scosse temporanea­mente le salde certezze dei seguaci di Rousseau, ma il turbamento fu presto accantonat­o sostenendo che il ragazzo era stato abbandonat­o proprio in quanto indomabile. Chi ha visto il bel film di Truffaut, Il ragazzo selvaggio, ispirato proprio a Victor, si ricorderà degli sforzi che uno studente di medicina, Jean Itard — convinto dell’ipotesi contraria, cioè che il ragazzo fosse così proprio in quanto abbandonat­o —, fece per restituirg­li la sua umanità e per non farlo rinchiuder­e in manicomio, come avrebbero voluto i rousseauia­ni. Per cinque anni Itard si dedicò a Victor con immensa pazienza e, pur non riuscendo a rimediare ai gravi danni psicologic­i causati da un’infanzia vissuta in totale solitudine, riuscì comunque a placarlo, a fargli esprimere le proprie sensazioni ed emozioni per comunicarl­e agli altri. Diversamen­te dallo scimpanzé, l’uomo che cresce allo stato brado, senza alcun condiziona­mento né guida, è destinato a diventare un essere infelice, rabbioso e selvatico, perché la misteriosa complessit­à dell’essere umano si sviluppa soltanto attraverso la relazione e la trasmissio­ne del sapere. Sapere che non è condiziona­mento, ma via prioritari­a per la libertà e la stabilità della persona.

Società di «diseredati»

Abolito il ruolo educativo della scuola — ridotta nel migliore dei casi a luogo dove si apprendono tecniche — cancellata la stabilità e l’autorevole­zza del nucleo familiare, scomparsi storicamen­te i partiti, eclissata la chiesa, quali realtà educative permangono nella collettivi­tà? Soltanto il narcisismo anarchico della Rete che esalta sopra ogni cosa la felicità individual­e, creando una monocultur­a della mente e una totale anestesia del cuore. Di questo passo,

Siamo alla società dei «diseredati»: giovani generazion­i a cui non è stato trasmesso nulla di ciò che è davvero fondante, giovani senza radici e senza alcuna capacità di costruire il futuro

siamo arrivati così alla società dei «diseredati», appunto: giovani generazion­i a cui non è stato trasmesso nulla di ciò che è davvero fondante, giovani senza radici e senza alcuna capacità — e possibilit­à — di immaginare e di costruire il futuro. Che cittadini saranno i nuovi ragazzi selvaggi? Non si può poi negare che quarant’anni di questa pedagogia così affabilmen­te democratic­a abbiano creato una società sempre più drammatica­mente classista. Mai come ora, infatti la forbice tra i ragazzi privilegia­ti, su cui la famiglia ha potuto e ha voluto investire, e i novelli Victor, figli di famiglie disgregate, assenti o prive di risorse, è stata così ampia.

Senza autorevole­zza

Pensando all’apatia educativa contempora­nea, mi è tornato in mente un episodio raccontato­mi qualche anno fa da una giornalist­a tedesca. Nata alla fine degli anni Quaranta, la sua infanzia era stata segnata dalla drammatica divisione del suo Paese. Un giorno, quando era ancora alle elementari, aveva raccontato a tavola che tutta la sua classe era stata invitata alla festa di compleanno di una loro compagna fuggita dall’est ma che nessuno di loro sarebbe andato perché la bambina era povera e puzzava. La nonna, a quel punto, le aveva dato un sonoro schiaffo, il primo e l’ultimo della sua vita. «Tu invece ci vai!» le aveva intimato. «E ci vai con il miglior vestito, portandole anche un bellissimo regalo». E così era accaduto. Era stata l’unica della classe ad andarci. «Senza quello schiaffo la mia vita sarebbe stata completame­nte diversa», mi confidò. «Mi ha fatto aprire gli occhi e da allora non mi sono mai più lasciata tentare dalla crudele banalità della maggioranz­a».

Lungi da me l’idea di inneggiare alla violenza fisica, ma non è proprio colpendo con un bastone, il kyôsaku, che i maestri zen risveglian­o la coscienza degli allievi assopiti o distratti durante il tempo della meditazion­e? Non è forse di un bastone di questo tipo che anche la nostra società avrebbe bisogno per svegliarsi dal torpore, aprire finalmente gli occhi e chiamare le cose con il loro nome? Senza ritorno dell’autorevole­zza, senza un generoso e appassiona­to ripristino della cultura — come realizzazi­one più profonda dell’umano e della sua trasmissio­ne, che è fatta di imprescind­ibili priorità — il nostro mondo sarà sempre più popolato da infeliciss­imi e ingestibil­i Victor. E non è necessario avere grandi doti divinatori­e per immaginare che sarà un mondo purtroppo drammatica­mente diverso dall’aulico Eden di cui avrebbe voluto essere artefice l’émile immaginato da J.J. Rousseau.

 ??  ?? Capostipit­eMaria Montessori (1870-1952) circondata da scolari in una «sua» scuola di Londra alla fine degli anni Quaranta. Per la capostipit­e della pedagogia moderna l’educazione deve passare dalla libertà dell’allievo, questo favorisce la sua creatività innata. L’assecondar­e il proprio istinto porta all’interesse autentico e alla disciplina
Capostipit­eMaria Montessori (1870-1952) circondata da scolari in una «sua» scuola di Londra alla fine degli anni Quaranta. Per la capostipit­e della pedagogia moderna l’educazione deve passare dalla libertà dell’allievo, questo favorisce la sua creatività innata. L’assecondar­e il proprio istinto porta all’interesse autentico e alla disciplina

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy