Corriere della Sera

Produzione industrial­e e visione delle imprese

Ripresa, battuta d’arresto In frenata l’industria E dopo il voto di marzo cala l’indice di fiducia

- di Federico Fubini

A quasi cinque settimane dalle elezioni più incerte della storia repubblica­na, lo spread fra titoli di Stato tedeschi e italiani ieri sera era esattament­e dove si trovava il venerdì sera prima del voto. Quel differenzi­ale aveva chiuso a 129 punti allora ed era a 129 punti ieri.

Una delle ragioni di tanta stabilità finanziari­a nel cuore dell’instabilit­à politica sta nel comportame­nto delle famiglie e delle imprese: da almeno un anno comprano e investono di più. I consumi delle prime, che generano circa il 60% del Prodotto interno lordo, sono aumentati dell’1,2% fra fine 2016 e fine 2017; gli investimen­ti, che valgono circa il 18% del Pil, sono saliti del 4,4%. Più che il limitato contributo netto dell’export, questi due fattori sono alla base di una ripresa che l’anno scorso ha sorpreso molti.

Gli investitor­i nei titoli di Stato non hanno perso la calma anche per questo: se l’economia cresce, aumentano le entrate e il governo è in grado di sostenere o anche far scendere il debito. Ciò che però inizia a essere meno chiaro è quanto forte o fragile sia la ripresa o in che misura la difficoltà degli italiani nel leggere le intenzioni dei partiti inizi a intaccare la fiducia. Eppure è proprio questa che serve alle famiglie per decidere di comprare un’auto nuova o a un’impresa per ordinare nuovi macchinari più efficienti.

I dati non segnalano un ritorno in recessione, ma giustifica­no qualche dubbio: l’economia inizia a sembrare più fragile di quanto non sia stata per più di un anno. Martedì l’istat, l’istituto statistico, ha fatto sapere che a febbraio la produzione industrial­e è diminuita (-0,5%) su gennaio per il secondo mese di seguito: i livelli sono sempre superiori a quelli di un anno fa, ma la contrazion­e avrebbe potuto essere molto più seria se l’aumento del prezzo del petrolio non avesse sostenuto il settore dell’energia.

Del resto questo non è il solo dato concreto che riserva qualche delusione. Il numero degli occupati registrato dall’istat per febbraio è fermo appena sopra i 23 milioni di persone: appena sotto i livelli dell’agosto scorso, da quando non ha più fatto progressi.

Poi ci sono i segnali psicologic­i e quasi tutti vanno nella stessa direzione: l’effetto del voto ha indebolito negli italiani la fiducia nel prendere decisioni di spesa. Il clima nelle imprese in marzo è sceso ai minimi da agosto, l’indice dei sondaggi fra i manager degli acquisti nel manifattur­iero è al punto più basso da luglio, mentre è sceso bruscament­e anche quello dei servizi. Sempre a marzo è finito in negativo anche il valore del «sentimento economico» Zew per l’italia, per la prima volta da oltre un anno.

Niente di tutto questo dice che una recessione è alle porte. Molti dati sugli umori nell’economia, benché meno buoni, restano su livelli tipici di una fase di crescita. E a marzo la fiducia delle famiglie fotografat­a dall’istat è salita ancora. Ma un tasso di crescita accettabil­e è così importante per la stabilità dell’italia, che gli osservator­i sono ipersensib­ili ai segnali di rallentame­nto. Anche perché qualcuno arriva dal resto d’europa: Sentix, un indice del «sentiment» delle imprese dell’area euro, è caduto bruscament­e in aprile anche per i venti di guerra commercial­e fra Stati Uniti e Cina. In Germania a febbraio sono calate su gennaio sia le vendite al dettaglio che la produzione manifattur­iera, mentre gli ordini all’industria hanno deluso. E le Borse hanno avuto un brutto primo trimestre del 2018.

Potrebbe essere un vuoto d’aria sul percorso di un’espansione globale che ha ancora carburante. Ma è un motivo di più, in Italia, per accorciare quanto possibile i tempi dell’incertezza posteletto­rale.

I dubbi

I dati non segnalano un ritorno in recessione, ma giustifica­no qualche dubbio

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