UNO, DIECI, CENTO, MILLE ALFIERI
Lo scrittore letto e interpretato
Da tempo quasi nessuno più legge gli scritti di Vittorio Alfieri. Eppure le sue tragedie ebbero uno straordinario successo nell’italia di fine Settecento, durante il cosiddetto «triennio giacobino», e furono ristampate moltissime volte per tutto il primo tratto del secolo seguente. Alfieri era morto da poco, nel 1803, e già ebbe l’onore di essere ricordato da Ugo Foscolo nei Sepolcri con alcuni versi famosi, che contenevano tra le altre cose l’immagine delle sue «ossa [che] fremono amor di patria».
Alfieri, poeta e scrittore che «mosse guerra a’ tiranni» secondo il giudizio di Leopardi, divenne rapidamente celebre come profeta della libertà e dell’indipendenza d’italia, colui che aveva contribuito a risvegliare la coscienza nazionale di un popolo dormiente da secoli. Si nutrirono dei suoi scritti i primi cospiratori del Risorgimento e si richiamò più volte a lui Giuseppe Mazzini. Giuseppe Garibaldi, nell’ottobre 1860, rivolgendosi alle sue truppe dopo la battaglia del Volturno, riprese una celebre frase di Alfieri.
Alla sua straordinaria influenza politica — attraverso anzitutto le tragedie «di libertà» e il trattato Della tirannide — è dedicato ora un lavoro intelligente e accurato di Stefano De Luca (Alfieri politico, Rubbettino, pagine 224, 16), che analizza i modi in cui, in differenti epoche, Alfieri sia stato considerato dalle diverse culture politiche italiane. Nel corso dell’ottocento ad Alfieri dedicarono Vittorio Alfieri studi alcune delle (1749-1803) figure più significative del ritratto da tempo: da Vincenzo Gioberti François-xavier a Mazzini (autore, secondo Fabre De Luca, di una delle letture
più acute di Alfieri), da Giosuè Carducci a Francesco De Sanctis. Nel Novecento dell’alfieri politico scrissero Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Piero Gobetti oltre a uno stuolo di critici letterari di professione: Natalino Sapegno, Luigi Russo, Giacomo Debenedetti e vari altri. I giudizi sono sorprendentemente diversi: per alcuni Alfieri è un rivoluzionario e un patriota, per altri è un reazionario che non riesce a staccarsi dalla sua origine aristocratica; per molti le sue idee sono riconducibili a una concezione liberale costituzionale, per altri saremmo invece di fronte a un pensatore anarchico ovvero all’esponente — lo sostenne Gobetti — di un liberalismo attivistico e rivoluzionario; se in tanti ne celebrano il patriottismo, qualcuno lo considera addirittura — con il Misogallo — un anticipatore del nazionalismo intollerante e aggressivo che si ritroverà poi nel fascismo. Spesso in questi giudizi Alfieri diventava soprattutto lo specchio in cui ciascun interprete vedeva riflesse le proprie idee politiche.
Molti, pur apprezzando in Alfieri la passione per la libertà, hanno rilevato come ne avesse un’idea astratta e indeterminata, come guardasse a modelli greci e romani e disprezzasse invece il mondo a lui contemporaneo. I suoi eroi, osservò Francesco De Sanctis, erano personificazioni di concetti più che persone. Una critica analoga la aveva già espressa, tra gli altri, Mazzini, che pure definiva «nobile, generosa, sublime» l’intenzione di Alfieri di alimentare con le sue tragedie l’odio verso la tirannide.
Rilette oggi, queste critiche inducono in fondo a chiedersi se la sua eredità non stia anche in qualcosa d’altro. Se cioè non derivino anche da Alfieri, da quello straordinario successo un tempo avuto dalle sue opere, alcune caratteristiche dell’antropologia politica italiana: certa inclinazione alle posizioni magniloquenti e astratte, certi eroismi meramente verbali, certe pose teatrali, che spesso hanno caratterizzato la vita politica e il discorso pubblico del nostro Paese.