I tormenti di Oscar Wilde in un ritratto commovente
The Happy Prince, Principe felice, titolo col senno di poi quasi ironico, è la fiaba che Oscar Wilde ascoltava dalla mamma e poi trasmise ai figli e anche a una coppia di giovani amichetti. Questa biografia dello scrittore vittima di regali soprusi (Queen Vittoria gli sopravvisse di un anno), è il finale di partita, l’esilio parigino in povertà e sotto falso nome, dopo la condanna per sodomia, fra bassifondi e pochi amici (uno fu Gide): fu deserto il funerale, riposa al Père-lachaise.
Il deb regista Rupert Everett (Wilde in teatro a Londra in The Judas kiss) vaga nel tempo, nel dolore, nello spazio, con la passione della dignità, passando da Parigi a Posillipo inseguito dai suoi fantasmi e dalla malattia che lo portò nel 1900 a morire circondato, disse, da un’orrenda tappezzeria. Un film che Everett indossa sulle sue misure inquadrando un pezzo poco noto dell’infame storia, confortato da pochi amici e il distruttivo Bosie complice di un’orgia di femminielli (la parte più vintage e folk). Il film sfodera momenti dolci e ispirati, raccontato come un album di ignominie omofobe e cita il Visconti di Morte a Venezia, dando per noti i tre processi, ben rappresentati da Atti osceni al Teatro dell’elfo di Milano.
Complici colleghi di gran classe e umanità (Colin Firth, Emily Watson, Colin Morgan), questo finale De profundiis è il più ispirato tra i film sullo scrittore del Garofano verde, maestro d’aforismi su cui incombe un riflesso para cristologico che Oscar avrebbe risolto con una battuta.