Garrone, Rohrwacher Due italiani a Cannes
Garrone ispirato dalla cronaca, Rohrwacher spirituale Sorrentino escluso. Il festival: stiamo ancora discutendo
Cannes, il salotto buono del cinema mondiale riapre le porte ai registi italiani. Al Festival (8-19 maggio) sventola il tricolore per due film tra i 18 in concorso, Dogman di Matteo Garrone e Lazzaro felice di Alice Rohrwacher. Raccontano due Italie: i buoni e i cattivi, la luce e il buio. La storia «spirituale» di un’amicizia tra «un contadino talmente buono da sembrare stupido e un altro ragazzo viziato dalla sua immaginazione» che mostra Alice; e il truce fatto di cronaca nera del Canaro a cui si ispira Matteo. Poi nella nobile sezione «Un certain regard» troviamo Euphoria di Valeria Golino. Dopo il digiuno dello scorso anno, l’italia si riempie la pancia.
Non c’è Paolo Sorrentino, la cui presenza fuori gara era data da tutti per certa, con Loro, il molto atteso film su Berlusconi. «Non posso dare una risposta precisa», esordisce il delegato generale Thierry Frémaux, «il suo film è diviso in due parti e la prima uscirà nelle sale prima di Cannes, la nostra decisione riguarda la natura del progetto. Ci sono tanti film che erano stati ipotizzati dai media e non sono entrati nella lista perché abbiamo voluto ospitare autori che non erano mai venuti». L’unica deroga al regolamento che impone anteprime fu per Nanni Moretti, ma il direttore alla fine si fa possibilista: «Le discussioni sono ancora in corso».
Sia Garrone che Rohrwacher a Cannes in passato hanno vinto il Gran prix della giuria: lui quando si rivelò con Gomorra, nel 2008; lei nel 2014 con Le meraviglie (ma già il suo esordio, Corpo celeste, andò a Cannes, alla «Quinzaine»). Garrone si è nutrito di un truculento fatto di cronaca nera «romanesco» del 1986, il canaro della Magliana e il suo brutale omicidio di un ex pugile dilettante, torturato e mutilato. «Ma non ho voluto in alcun modo ricostruire i fatti come si dice che siano avvenuti. Il protagonino, sta, Marcello Fonte, con la sua umanità ha chiarito dentro di me come affrontare una materia così cupa e violenta, e l’uomo che volevo raccontare: nel tentativo di riscattarsi dopo una vita di umiliazioni, si illude di aver liberato non solo se stesso ma anche il proprio quartiere e forse perfino il mondo. Che invece rimane sempre uguale, e quasi indifferente».
Così Alice sul suo film, di cui è protagonista sua sorella Alba, con la partecipazione di Nicoletta Braschi: «Racconto la storia di una piccola santità senza miracoli, senza superpoteri o effetti speciali. La santità dello stare al mondo, e di non pensare male di nessuno, ma semplicemente di credere negli altri esseri umani; la possibilità della bontà, che gli uomini da sempre ignora- ma che si ripresenta, e li interroga con un sorriso». Valeria Golino torna da regista a «Un certain regard», che cinque anni fa con Miele ospitò il suo esordio dietro la macchina da presa; questa è la storia di due fratelli (Riccardo Scamarcio imprenditore di successo, e Valerio Mastandrea, prof alle medie) che si conoscono poco e si riavvicinano quando la morte si appalesa. Valeria si è ispirata «a eventi che stavano succedendo nella vita vera, a persone a me care. Mi sono avvicinata alla storia con l’attenzione di quando si maneggia un oggetto fragile e prezioso, ma con la consapevolezza di una storia potente, lieve e profonda».
In gara torna Jean-luc Godard con Le Livre d’image, Spike Lee (con Blakkklasman, su un poliziotto afroamericano infiltrato tra i razzisti) e due registi che non possono uscire dai loro Paesi: censura politica per l’iraniano Jafar Panahi (il road movie Three Faces), mentre il russo Kirill Serebrennikov (Leto, il rock’n’roll ai tempi di Breznev) è accusato di appropriazione indebita di fondi pubblici: lui, sostenuto dal mondo dell’arte, ha parlato di «assurdità». Fuori competizione il nuovo capitolo di Star Wars e il documentario su papa Francesco, Un uomo di parola, di Wim Wenders. Il Festival apre con Javier Bardem e Penélope Cruz in Everybody Knows di un altro grande iraniano, il pluripremiato Asghar Farhadi. Nell’edizione che ha Cate Blanchett presidente di giuria, a chi fa notare che ci sono poche registe donne, Frémaux risponde che «scegliamo per la qualità non sulla base di discriminazioni di genere. Le donne cineaste sono in ogni caso sempre più numerose». Proibiti i selfie con gli attori sul tappeto rosso, «non era carino, il cinema è mistero e desiderio». A Cannes si va a vedere (film), non a guardare (il proprio volto).