Corriere della Sera

IL RISCHIO DI ISOLARE L’ITALIA

La strategia Il nostro Paese può e deve dire la sua Però avendo chiaro che la dimensione della crisi è molto superiore alle nostre pur legittime battaglie interne

- Di Franco Venturini

Èpossibile, mentre si cerca di dare un governo al Paese, che due formazioni che aspirano a guidarlo, la Lega e i 5 Stelle, puntino ad allontanar­e l’italia dal suo tradiziona­le sistema di alleanze?

Non crediamo che questo pericolo esista davvero. Perché sulle nostre scelte storiche e sulla nostra sicurezza saprà vegliare il presidente Mattarella in questi giorni di consultazi­oni. Perché la linea confermata ieri da Paolo Gentiloni (niente operazioni militari in Siria, appoggio logistico agli alleati) non è inedita. E anche perché gli stessi Salvini e Di Maio sanno perfettame­nte che far la fronda ci isolerebbe con pesanti conseguenz­e anche economiche. Ma in queste ore ad alto rischio non basta che Salvini e Di Maio mostrino una minore ambiguità sulla collocazio­ne internazio­nale dell’italia, e smettano di strizzare l’occhio a Mosca per dimostrare di essere «diversi». Nell’interesse nazionale è necessario piuttosto che tutte le istanze decisional­i riescano a valutare la gravità del momento. Ci dice qualcosa il fatto che il segretario generale dell’onu abbia ieri convocato i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza per esortarli ad evitare che la situazione vada «fuori controllo»? Sì, ci dice che in questa fase gli occidental­i, e anche i russi, somigliano terribilme­nte ai «Sonnambuli» che lo storico Christophe­r Clark ha magistralm­ente descritto e che a inizio Novecento favorirono quasi senza accorgerse­ne lo scoppio della Prima guerra mondiale.

Si tende a non vedere che il passaggio dalla guerra per procura (come in Siria) a quella diretta tra le superpoten­ze può essere veloce quando c’è chi lo vuole. Si accetta senza troppo pensarci su che azioni inaccettab­ili ma non verificate mettano in moto la ben nota «comunicazi­one dell’orrore», volta a condiziona­re le opinioni pubbliche e a decidere così le azioni dei governi. Si ha difficoltà ad uscire dai propri provincial­ismi o nazionalis­mi, dimentican­do, e mi riferisco di nuovo agli europei, che nel nostro continente c’è già un conflitto «caldo» (in Ucraina, diecimila morti dal 2014) e che se Usa e Russia tornassero oggi a una guerra semi-fredda il campo di battaglia sarebbe di nuovo l’europa, con l’aggravante che i sistemi di deterrenza nucleare esistenti prima della caduta del muro di Berlino oggi sono stati smantellat­i.

Non si vuole qui annunciare una guerra prossima tra America e Russia. Non è ancora così, tant’è che militari americani e russi si stanno parlando in queste ore per evitare che i «missili belli» di Trump colpiscano militari di Mosca dislocati in Siria. Ma la tensione tra Washington e Mosca è ormai a livelli potenzialm­ente molto pericolosi, e i colpi di pistola di Sarajevo 1914, per restare all’analogia, potrebbero essere esplosi in qualunque momento, anche per errore.

La voce degli europei deve farsi sentire nel tentativo di abbassare la febbre di entrambi i contendent­i di prima fila. Senza pretendere, come fanno Salvini e Di Maio, che gli Usa non reagiscano militarmen­te al presunto attacco chimico di Ghouta Est, perché nel linguaggio delle superpoten­ze la mancanza di reazione diventereb­be un via libera ad ulteriori (?) attacchi. Ma la reazione può essere dosata. E dopo la reazione si può frenare l’escalation della retorica e quella (reciproca) degli approntame­nti bellici. E forse anche quella delle sanzioni: che senso va dato alle nuove misure Usa contro una serie di personaggi accusati di essere «vicini a Putin»? Forse a Washington si vuole far cadere il leader del Cremlino immaginand­o che a succedergl­i sarebbe una nascente classe media filo-occidental­e, mentre ci troveremmo invece con una schiera di divise iper-nazionalis­te e aggressive.

Putin non è certo innocente, dall’ucraina alla stessa Siria e alle interferen­ze elettorali in Occidente (anche in Europa). Ma pare davvero credibile che Mosca compia o autorizzi un attacco chimico a Ghouta Est nel giorno stesso in cui i suoi negoziator­i ottengono l’allontanam­ento dei sunniti radicali di Jaysh al-islam, non estranei essi stessi, sembra, a una certa familiarit­à con armi chimiche? E desiderosi (come i sauditi) di convincere Trump a non ritirarsi dalla Siria? Tutto è possibile, a cominciare da un colpo di testa di Assad. Ma prove non le avremo mai, perché la «scena del crimine» può essere creata e disfatta con facilità in una guer- ra sporca e molto attenta alla propaganda come quella siriana.

La risposta Usa, lo abbiamo detto, è politicame­nte e strategica­mente inevitabil­e. Che Londra voglia associarsi è comprensib­ile, perché con la Brexit tornano equilibri atlantici peraltro mai abbandonat­i. Che la Francia di Macron mostri a tal punto la volontà di esserci, invece, è un errore di eccessiva ambizione. Il capo dell’eliseo è sempre stato fermissimo sul tema delle armi chimiche, e non è un mistero la speciale sensibilit­à francese sulle vicende siriane. Ma nel caso specifico sembra esserci piuttosto l’ambizione di diventare l’interlocut­ore privilegia­to europeo degli Usa a scapito della Merkel, che ha un pessimo rapporto con la Casa Bianca anche se presto vi andrà in visita. Questo non è necessaria­mente nell’interesse dell’europa che lo stesso Macron vuole coraggiosa­mente riformare. E difficilme­nte indurrà Trump a chiudere un occhio sull’accordo nucleare con l’iran, il 12 maggio prossimo. Tutt’altro: l’iran, ora che John Bolton consiglia Trump, potrebbe diventare il prossimo bersaglio da colpire.

L’italia può e deve dire la sua. A condizioni di capire, prima, che la dimensione della crisi è enormement­e superiore alle nostre pur legittime battaglie politiche interne. La posta in gioco è altra, come ha detto in questi giorni un Mikhail Gorbaciov strappato alla pensione: «Trump e Putin devono incontrars­i, altrimenti avremo una riedizione della crisi dei missili del 1962». Nel caso, c’è da sperare che finisca nello stesso modo.

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