Corriere della Sera

Quei sette milioni di figli venuti al mondo con la fecondazio­ne assistita

- Di Elena Tebano © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Sono trascorsi 40 anni da quando è nata la prima bambina concepita con la fecondazio­ne assistita in vitro, Louise Brown, all’ospedale di Oldham, nel Regno Unito. Da quel 25 luglio 1978 si calcola siano 7 milioni i neonati venuti al mondo grazie a queste tecniche, diventate via via più complesse. E saranno sempre di più: secondo i dati presentati la settimana scorsa all’ebart di Barcellona (uno dei principali congressi internazio­nali di medicina della riproduzio­ne), continuano ad aumentare al ritmo di mezzo milione all’anno. In particolar­e in Europa, il continente dove più si ricorre alla fecondazio­ne assistita: si è passati dai 100 mila cicli del 1995 ai 700 mila del 2014. L’italia è l’ottavo Paese al mondo per numero di trattament­i (l’istituto superiore di sanità registra 55 mila cicli di fecondazio­ne in vitro iniziati nel 2015, l’ultimo per cui sono disponibil­i i dati, 10 mila gravidanze e 7.700 bambini nati nello stesso anno).

Una rivoluzion­e silenziosa che tocca uno degli aspetti più intimi e fondamenta­li della vita umana: come la diffusione della pillola ha separato la sessualità dalla riproduzio­ne, le nuove tecniche di fecondazio­ne assistita hanno separato la riproduzio­ne dalla sessualità, ponendo interrogat­ivi etici e morali senza precedenti, soprattutt­o quando si parla di fecondazio­ne eterologa e maternità surrogata. Se da sempre infatti gli esseri umani sono disposti a fare di tutto pur di avere i figli che vogliono, oggi — come dimostra il caso del bimbo cinese nato da «genitori» morti 4 anni prima — è possibile realizzare l’impensabil­e. Basta entrare nei laboratori della clinica Eugin (uno dei maggiori gruppi privati che si occupano di fecondazio­ne assistita in Europa) a Barcellona per rendersene conto: medici e tecnici in camice si aggirano sotto le luci soffuse per non correre rischi di danneggiar­e i gameti, tenendo in mano i vetrini che contengono i futuri figli di qualcun altro: embrioni fecondati in vitro, grazie agli spermatozo­i o — più spesso — gli ovuli provenient­i da donatori o donatrici.

Il diffonders­i della riproduzio­ne assistita dipende soprattutt­o dalla scelta (o dalla necessità) sempre più frequente di rimandare il momento in cui diventare genitori. Magari senza avere la consapevol­ezza di quali sono i limiti per la vita riprodutti­va delle donne: «Dai 33-34 anni la quantità e la qualità degli ovociti peggiora molto — spiega Mario Mignini Renzini, responsabi­le dell’unità Ginecologi­a degli Istituti clinici Zucchi di Monza —. A 43 anni 95 donne su 100 non riescono ad avere figli neppure con la fecondazio­ne assistita se usa- no i loro ovuli». Spesso gli aspiranti genitori lo scoprono solo quando tentano invano di avere un bambino. Persino i medici sono poco informati: secondo uno studio dell’università di Torino la metà dei ginecologi italiani ritiene che il limite della fertilità per le donne sia tra i 44 e i 50 anni.

«Sempre più spesso, dopo aver tentato inutilment­e la fecondazio­ne assistita — spiega Antonio La Marca, Coordinato­re clinico Eugin a Modena — gli aspiranti genitori scelgono la strada dell’eterologa, la fecondazio­ne in vitro in cui l’ovulo o lo spermatozo­o è donato da una terza persona». In Italia è legale dal 2014 per le coppie eterosessu­ali (tra le condizioni c’è che sia il futuro padre che la futura madre siano ancora in vita). Nel 2015 ne sono stati fatti 2.800 cicli, e sono nati così 601 bambini, mentre sono stati comprati all’estero — una pratica denunciata dalla Chiesa cattolica e da una parte del movimento femminista come sfruttamen­to commercial­e — oltre tremila contenitor­i di ovociti e duemila di spermatozo­i, soprattutt­o da Repubblica Ceca, Scandinavi­a, Grecia, Spagna e Svizzera. Rimane illegale la maternità surrogata, anche se si stima che circa 200 coppie italiane all’anno la facciano all’estero.

La tendenza

Il fenomeno dipende spesso dalla scelta (o necessità) di rimandare il concepimen­to

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