Corriere della Sera

LA MAGIA PERDUTA DI MACRON

- di Aldo Cazzullo

Un anno fa, in questi stessi giorni, Emmanuel Macron sbalordiva il mondo.

Nell’era della rivolta contro le élites e il sistema, la Francia eleggeva presidente un allievo dell’ena, la scuola che da sempre seleziona le élites, e un banchiere della Rothschild, simbolo del sistema finanziari­o internazio­nale. Per altri tratti Macron interpreta­va invece lo spirito del tempo: non aveva ancora quarant’anni, né aveva un partito alle spalle. In ogni caso, l’ascesa dell’ultimo liberale è stata formidabil­e. Ora però il vento è girato, e anziché alle spalle comincia a soffiargli in faccia.

L’argomento che si sente ripetere spesso in Italia — al primo turno Macron ha preso solo il 24% — è privo di significat­o in Francia. In oltre mezzo secolo di Quinta Repubblica, nessun presidente è mai stato eletto al primo turno, neppure il fondatore (De Gaulle visse come un affronto personale essere portato al ballottagg­io dal candidato della sinistra, il giovane François Mitterrand. André Malraux e altri ministri insistette­ro perché andasse in tv a far propaganda. Lui rispose: «Cosa volete che dica alla television­e? Mi chiamo Charles De Gaulle e ho 74 anni?». Alla vigilia del voto, il ministro dell’interno gli portò la foto di Mitterrand con il capo della polizia collaboraz­ionista Bousquet. Il Generale disse: «Metta via quella roba»). Chirac conquistò per due volte l’eliseo prendendo al primo turno nel 1995 poco più del 20%, e nel 2002 meno ancora.

Non c’è dubbio però che il sistema francese produca una semplifica­zione al limite della torsione: sbaragliat­a Marine Le Pen al ballottagg­io e conquistat­a la maggioranz­a all’assemblea nazionale, Macron ha ora davanti a sé altri quattro anni di potere in solitudine. Siccome proviene da sinistra — più per cooptazion­e che per cultura —, ha scelto un primo ministro di destra moderata.

E douard Philippe, è stato allievo e portavoce di Alain Juppé.

Il nome di Juppé, che Chirac definiva «il migliore di noi», è legato al primo di una serie di tentativi fallimenta­ri di modernizza­re la Francia. Da premier cercò di riformare le pensioni dei ferrovieri, i mitici «cheminots», che lasciavano il lavoro a cinquant’anni come ai tempi di Zola e delle locomotive. Dovette in parte cedere sotto un’ondata clamorosa di scioperi, e quando Chirac dissolse l’assemblea nazionale vinsero a sorpresa i socialisti di Jospin. Nel 2007, ancora nel nome della modernizza­zione, fu eletto Nicolas Sarkozy: la fine è nota, il riformator­e accolto come il nuovo Napoleone fu battuto dal budino Hollande, ed è apparso per l’ultima volta sulla scena pubblica tra due gendarmi come Pinocchio.

Al di là della modesta statura dei protagonis­ti, il punto è che la maggioranz­a dei francesi vuole la modernizza­zione solo a parole. Ogni volta che un leader tocca i fili dei privilegi e dello statalismo, cade fulminato. Lo sta provando pure Macron, che ha sfidato sia i cheminots con l’apertura delle ferrovie ai privati, rifiutata a suon di scioperi, sia gli studenti, che nel cinquanten­nale del Maggio ’68 tornano simbolicam­ente a occupare Nanterre e la Sorbona (sgomberata

l’altro ieri) per protestare contro il numero chiuso.

Anche in Europa Macron ha sbattuto contro il muro. Era partito bene, facendo suonare l’inno alla Gioia prima della Marsiglies­e; poi ha rifiutato la dovuta solidariet­à all’italia, con incidenti grotteschi come quello di Bardonecch­ia. Aveva previsto che Londra si sarebbe rimangiata Brexit (e che Trump non avrebbe stracciato gli accordi di Parigi contro il

Difficoltà Il presidente sperimenta quanto sia duro guarire un Paese di cattivo umore come la Francia

riscaldame­nto del pianeta), ed è stato smentito. La sua giusta proposta per il rilancio della costruzion­e europea si è scontrata con l’intransige­nza dei Paesi del Nord, diffidenti nei confronti dei partner mediterran­ei, e ora con la vittoria dei populisti in Italia, dove l’interlocut­ore naturale di Macron (Matteo Renzi, da lui ricevuto all’eliseo da semplice segretario pd) è il grande sconfitto.

Macron è tutt’altro che finito. Anche in queste ore si muove con dinamismo: tende la mano ai vescovi e al mondo cattolico, prepara l’intervento in Siria, va in tv a ribadire che terrà duro sulle riforme (anche su quella più impopolare: limite di velocità a 80 chilometri l’ora sulle strade statali). Il suo resta l’esperiment­o liberale e cen- trista più interessan­te d’europa, visto l’inevitabil­e declino della Merkel. È finito però l’incantesim­o che grazie a una serie irripetibi­le di intuizioni e di colpi di fortuna, non sempre casuali — compreso lo scandalo che ha azzoppato il filorusso Fillon — , l’ha portato a conquistar­e tutto. Le opposizion­i «repubblica­ne» di destra e di sinistra sembrano ancora tramortite; i due populisti, la Le Pen e Mélenchon, sono troppo schiacciat­i a destra e a sinistra per pensare di vincere un ballottagg­io; però anche il figlio prediletto dalla vittoria sta sperimenta­ndo quanto sia duro guarire un Paese di cattivo umore come la Francia, e farlo contare di più in un’europa che al liberalism­o sta chiudendo le porte.

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