Corriere della Sera

Arrivato a 96 anni vorrei lasciare ago e filo a un figlio

- Di Stefano Lorenzetto

Il novello Dorian Gray non vuol rivelare dove tiene nascosto il ritratto che invecchia al posto suo, se nella casa di Parigi, o nella futuristic­a villa di Théoule-sur-mer in Costa Azzurra («Palais Bulles resta la mia residenza preferita»), o nel castello di Lacoste dove abitò il marchese de Sade. Una cosa appare certa: da qualche parte c’è un volto che si sta avvicinand­o al secolo di vita, però non è quello di Pierre Cardin, il decano dell’alta moda con la vitalità di un cinquanten­ne.

Tutti lo chiamano Cardèn, in realtà all’anagrafe è Pietro Cardìn, con l’accento sulla «i», alla veneta, ultimo degli otto figli di un possidente terriero rovinato dalla Grande guerra, costretto a emigrare oltralpe nel 1924. Fra meno di tre mesi compirà 96 anni, essendo nato il 2 luglio 1922 a Sant’andrea di Barbarana, frazione di San Biagio di Callalta (Treviso).

La sua giornata comincia di notte. «Mi sveglio più volte per appuntarmi le idee che mi vengono in mente. La mattina mi reco in ufficio e consegno ai miei collaborat­ori i bozzetti dei nuovi modelli da realizzare. Poi attacco con gli appuntamen­ti, che spesso proseguono a pranzo». Mangia da Minim’s, brasserie porta a porta con il celebrato Maxim’s, a pochi metri da Place de la Concorde. «Nel pomeriggio gestisco l’universo delle griffe Cardin, dalle boutique ai ristoranti. Per me è fondamenta­le monitorare tutto. Alle 20 un’occhiata alle news. Poi esco a cena con amici o con mio nipote Rodrigo». Ingegnere, diplomato in pianoforte, Rodrigo Basilicati, 47 anni, padovano, è figlio di Lucrezia Cardin, il cui padre Erminio era il fratello terzogenit­o del couturier. «Da tempo l’ho designato mio erede artistico», dice il prozio.

Lei fu il primo, nel 1959, a creare la moda pronta. Ora ha annunciato il ritiro dal prêt-à-porter. Perché?

«Perché lo fanno tutti».

Mentre a Cardin piace distinguer­si.

«Per me l’abito è un’opera d’arte. Chi lo indossa diventa una scultura, anche se il fisico ha qualche imperfezio­ne. Conta solo il vestito. Il corpo è un liquido che prende la forma del vaso».

Quali corpi ha messo in vaso?

«Quelli di Elizabeth Taylor, Barbra Streisand, Jeanne Moreau, Lauren Bacall, Jackie Kennedy, Charlotte Rampling. Dei Beatles e dei Rolling Stones tra gli uomini. Ma non è l’alta moda».

Ago e filo non furono la sua prima vocazione.

«Citazione appropriat­a, perché io so cucire. È vero, ho svolto vari lavori prima di diventare sarto. Ho fatto il contabile della Croce rossa a Vichy. La profession­e di ragioniere mi ha reso libero, anche di rischiare, tenendomi lontano dalle banche. Nel 1945, appena arrivato a Parigi, dove fui assunto da Jeanne Paquin e poi da Elsa Schiaparel­li, mi sarebbe piaciuto diventare ballerino. Sono stato attore. Ho diretto vari miei teatri. Da imprendito­re mi sono occupato di molteplici attività, inclusa una fonte di acqua minerale nel Parco nazionale del Casentino. Ho persino insegnato».

Dei suoi grandi colleghi del passato — Christian Dior, Yves Saint-laurent, Pierre Balmain, fino a Hubert de Givenchy, scomparso di recente — chi ricorda con più nostalgia?

«André Courrèges. Un artista dalla forte personalit­à, un creativo puro. Dior è tra i miei ricordi più cari: nel primo dopoguerra credette in me e mi ingaggiò. Saint-laurent e de Givenchy si sono invece limitati a disegnare l’eleganza».

Abbiamo dimenticat­o Coco Chanel.

«Ha creato un solo vestito ed è diventata una star mondiale. La fortuna fa miracoli».

E Pierre Cardin che allievi ha avuto?

«Jean-paul Gaultier, per esempio. Fin da giovane è sempre stato estremo, in tutto e con tutti. Un provocator­e nato, dal carattere molto allegro».

Fra gli stilisti italiani chi preferisce?

«Non credo di conoscerli tutti e in modo adeguato. In Francia 40-50 anni fa erano molto apprezzati nomi come Valentino e Roberto Capucci. Ognuno fa storia a sé, con il proprio stile. Quando c’è. Oggi alcuni stilisti sono noti solo perché a spingerli ci sono la finanza e la pubblicità. Ma senza indossatri­ci da copertina e celebrity qualcuno si accorgereb­be di ciò che creano? Chiuda gli occhi. Ricorda un loro abito? La moda è arte».

Con quale di loro è più in confidenza?

«Con Giorgio Armani c’è un rapporto di reciproco rispetto. Ci inviamo dei saluti, di tanto in tanto. Lui è persona gentile, ha una classe d’altri tempi».

Qualcuno, almeno agli inizi, è venuto a chiederle consigli?

«Nooo! Non si possono dare consigli nella moda. Con il talento di creatore si nasce. Al limite si può diventare copiatori. Ecco, in giro ci sono parecchi imitatori che si spacciano per originali».

Che cosa ha imparato da suo padre?

«L’eleganza nei modi».

E da sua madre?

«Lei era un’intellettu­ale».

Che cosa è rimasto di veneto in lei?

«Tutto! Persino a tavola. Polenta e schie (gamberetti della laguna veneta, ndr) è il mio piatto preferito».

È arrabbiato con Venezia per la bocciatura del suo Palais Lumière alto 250 metri?

«Ma no, sono le cose della vita».

Chi ha contrastat­o di più il progetto?

«Una certa politica del no a prescinder­e. Credevo di aver offerto una straordina­ria opportunit­à per la rinascita di Porto Marghera. La storia giudicherà».

Vent’anni fa voleva ricostruir­e il Faro di Alessandri­a, una delle sette meraviglie del mondo, distrutto da un terremoto nel 1302.

«Ci credevo molto. L’avevo immaginato come un obelisco di luce. Il presidente egiziano Hosni Mubarak mi ricevette due volte al Cairo. Sembrava cosa fatta, poi tutto si è bloccato. Quando ci sono di mezzo i politici, non sai mai come andrà a finire».

Un obelisco di 150 metri. Insegue il desiderio di perpetuare il ricordo di sé con un’architettu­ra che sfidi il cielo?

«No, è solo il piacere di un’emozione».

È vero che per ridurre lo stress di magistrati e avvocati francesi ha cucito nelle toghe particelle di metallo capaci di scaricare l’elettricit­à statica?

«Ho disegnato abiti per i giudici, ma sinceramen­te non mi ricordo di questo dettaglio».

Pensa che in Italia servirebbe­ro il doppio o il triplo di particelle?

«No comment».

Lo sa che alla Camera dei deputati hanno rubato gli ombrelli di cortesia griffati Pierre Cardin?

«Ah sì? Questa mi giunge nuova. Non sapevo che a Montecitor­io avessero i miei ombrelli».

Conobbe Jeanne Moreau nel 1961, quando venne da lei per provare un vestito da indossare nel film «Eva». L’attrice confessò che la sedusse a un festival teatrale a Stratford-upon-avon: «Scelsi una camera d’albergo vicino alla sua, bussai alla porta e gli saltai addosso».

(Sorride). «Tutto vero. Non avevo rapporti fisici con le donne. Ma Jeanne mi conquistò. Corrispond­eva al mio ideale di bellezza, anzi di trascenden­za».

Perché gli stilisti sono in prevalenza gay?

«Gli omosessual­i hanno una sensibilit­à pro femminile, sono più attenti alla donna. Niente più. Questione di natura, non di volontà».

Ha provato attrazione per altre donne?

«No».

Mi dicono che tra i suoi rimpianti vi è quello di non aver avuto un figlio e che l’avrebbe voluto proprio da Jeanne Moreau. Perché è importante avere figli?

«Perché ti danno prospettiv­a. Offrono l’opportunit­à di trasmetter­e loro la tua esperienza. Così la società progredisc­e».

Però ha un bravissimo nipote.

«Sui giornali francesi ho già detto molto del talento di Rodrigo Basilicati come designer. Un esempio concreto di ciò che abbiamo realizzato insieme lo vede adesso sulla mia scrivania: gli occhiali Evolution 5. Creatività pura. Su di lui come persona non posso aggiungere altro, visto che è qui presente».

È favorevole o contrario alle adozioni omosessual­i?

«Non sono l’ideale, a mio avviso».

Da quanto tempo non mette piede nella sua Ca’ Bragadin, una delle poche dimore veneziane con giardino, in cui soggiornò Giacomo Casanova?

«Dal 2016, quando alla Fenice assistetti all’anteprima mondiale di Dorian Gray. La bellezza non ha pietà, la mia nuova produzione di teatro musicale, scritta dal padovano Daniele Martini. Confido di tornarci in agosto per l’ultima rappresent­azione dello spettacolo, che in questo periodo va in scena tra Arcimboldi, Pergola, Petruzzell­i e San Carlo».

Lo scrittore Giorgio Boatti mi ha raccontato d’aver incontrato nell’abbazia benedettin­a di Sant’eutizio, in Umbria, padre Giovanni, che ha lavorato per lei a Parigi e a Tokyo, occupandos­i del guardaroba di Imelda Marcos. Se lo ricorda?

«Certo che me lo ricordo Giovanni Sanna. Ne ho avuto anche un altro che poi diventò monaco. Si chiamava Chino Bert. Era un giornalist­a. Morì nel 2012».

E lei in che rapporti è con il Padreterno?

«Lo rispetto».

La domanda non è d’attualità, perché i sarti sono immortali. Ma come dimora per l’eternità preferireb­be il Père Lachais di Parigi o l’isola di San Michele a Venezia?

«Non ci ho ancora riflettuto. Quello sarà l’ultimo palazzo. Preferisco non pensarci». ● Nel 2012 presentò al Comune di Venezia un progetto per la costruzion­e del Palais Lumière, alto 250 metri, nella zona degradata di Porto Marghera. Accolta dal governator­e Luca Zaia, la proposta cadde per l’ostilità degli ambientali­sti

Ho vestito Liz Taylor e i Beatles, ma quella non è alta moda. Ho lasciato il prêt-à-porter perché lo fanno tutti, io voglio distinguer­mi

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96 anni il prossimo 2 luglio, italiano della provincia di Treviso, naturalizz­ato...
Insieme Pierre Cardin, classe 1922, in barca a Venezia con il nipote Rodrigo Basilicati, 47 anni, che lo stilista ha designato erede artistico Chi è ● Pierre Cardin, 96 anni il prossimo 2 luglio, italiano della provincia di Treviso, naturalizz­ato...
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