Pittrice dei fiori, Olimpia Biasi ha deciso di ristrutturare un casolare nel Trevigiano «A ispirarmi è la semplicità della natura»
P archeggio comodo sulla piazza di Lovadina, ameno paese in provincia di Treviso, tra il Piave e le colline del Prosecco. Si apre un portone e siamo in un giardino circolare, cintato da un muretto di sassi, al centro un prato fiorito di margherite, ai lati vecchie panchine in ferro battuto e grandi vasi di sassifraga, piante dai fiori rosa resistenti ai freddi della Marca.
Si apre un cancello e, meraviglia, siamo nell’orto, l’antico brolo piantato a gelsi, tagliato da una cornice di berceau e treillage che a breve si ricopriranno di rose a grappolo e antiche francesi rampicanti color cipria, peonie crema e ciuffi di narcisi bianchi. Una forsizia giallo oro, al culmine della fioritura, si apre tonda sullo sfondo della grande facciata in coccio pesto rosa, un intonaco ottenuto macinando mattoni rossi e calce, che diventa marmorino bianco molto slavato nella parte che guarda il giardino.
«È il prezioso lavorio del tempo, probabilmente sono tracce sbiadite di vecchi affreschi» spiega Olimpia Biasi, artista «della natura», come ama definirsi, proprietaria di questa fiabesca casa di campagna, costruita nel ‘500, poi appartenuta alla migliore nobiltà veneta, tra cui i conti Collalto di Susegana, e la famiglia patrizia dei Bove. «Abitavo a Treviso, e prima ancora a Venezia, bellissime città, ma pur sempre città. Quando i figli sono cresciuti ho deciso di fare la “scelta di vita”: andare a vivere e lavorare in campagna. Ho trovato questo casone, 600 metri quadri abitabili e altri 600 adibiti a cantine, e me ne sono innamorata. La famiglia non era convinta, la casa era invenduta da sette anni, troppo grande, in un paese “morto”, un paese di lupi, come dice l’etimologia del nome. Ma io sono testarda, ed eccomi qui. Ci abito dal Duemila».
Fuori muri consunti e un po’ corrosi molto old fashion. Dentro, atmosfera calda, ricca di colori, spazi rimaneggiati il meno possibile. «Io e l’amico architetto Pier Apolloni abbiamo restaurato tutta la casa in tre mesi, mantenendo l’assetto originario sui piani fino al terzo dove ho allestito il mio atelier, con due stanze a destra e due a sinistra, uno schema che si ritrova nell’impostazione classica delle case venete». Appena una rinfrescata ai pavimenti originali, il seminato veneziano in cucina, il marmo rosso di Verona nell’androne.
«Nelle stanze del portico ho creato un pavimento a mosaico, usando pezzi di recupero di fabbriche di marmo». Anche il tondo sospeso sulla scala neoclassica fatto con piccole tessere colorate è opera dell’artista, e così la sistemazione dei due salotti, quello più intimo al piano terra, col divano patchwork e il lungo tavolo fratino con le tovaglie rosse «tessute a mano in Romania dalla nonna della badante di mia madre», e quello in stile biedermeier al primo piano, con i tappeti caucasici, la dormeuse in velluto di seta e le poltrone rivestite di preziose stoffe Eger di Bassano. Dappertutto, sui muri e distese a terra come tappeti, le opere informali che richiamano elementi vegetali.