Corriere della Sera

Quasi una madre in forma di uragano: il mito di Katrina

«Salvare le ossa» (edito da NN) ha sullo sfondo il disastro del 2005 Jesmyn Ward scava in un’america difficile

- Di Giulia Ziino

«L egherò i pezzi di vetro e mattone con lo spago e appenderò i frammenti sopra il letto, in modo che brillino nel buio e raccontino la storia di Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte. Il suo carro era una tempesta terribile e nera, e i greci avrebbero detto che era trainato dai draghi. Ci ha lasciato un mare di buio e una terra bruciata dal sale. Ci ha lasciati qui perché impariamo a camminare da soli. A salvare ciò che possiamo».

Ci mette dieci giorni ad arrivare, Katrina — e altrettant­i capitoli, più due: la distruzion­e e il dopo. Nell’aria che si fa sempre più calda e nervosa, noi — i lettori — la aspettiamo a ogni pagina, coscienti di ciò che porterà con sé. Non così i giovani protagonis­ti di questo romanzo, che ancora non sanno cosa li aspetta. Solo uno di loro, il padre, capisce quello che sta per succedere — moderno e improbabil­e indovino, ignorato mentre lancia appelli ai figli ubriaco di birra e noodle precotti. Unico a sapere, ma inascoltat­o.

Dopo Katrina — era l’agosto del 2005 — Jesmyn Ward (Delisle, Mississipp­i,1977) non ha scritto per due anni. L’uragano che ha ferito la sua terra le aveva tolto la voce. Poi non si è più fermata. Con Salvare le ossa — Salvage the Bones — ha vinto il National Book Award nel 2011. L’anno scorso con Sing, Unburied, Sing (uno dei cento migliori titoli del 2017 secondo il «New York Times» e nella lista dei favoriti di Barack Obama) lo ha vinto di nuovo: unica donna a centrare una doppietta che è stata, in passato, di grandi come Faulkner, Roth, Bellow, Updike. Le sue storie crude, di gente ai margini ma raccontate con una lingua eroica e ricca stanno conquistan­do l’america. Ora in Italia la porta NN, con Salvare le ossa a fare da apripista, poi a seguire gli altri titoli.

Si parte — anzi, si finisce — da Katrina, madre terribile delle catastrofi, culmine di una manciata di giorni in cui il romanzo scava tra le vite della famiglia Batiste. Neri della costa sul golfo del Mississipp­i. Padre, tre figli maschi — Randall, forse una promessa del basket, Skeetah e il più piccolo, Junior — e una femmina, Esch, che immaginiam­o ragazzina, secca e scostante, una che non fa sogni né sconti. È Esch — bambina in attesa di un bimbo — la voce del romanzo, sue le parole a volte alate, a volte cariche di immagini, e carne. Quasi che per spiegare il mondo ristretto che ha intorno non potesse fare altro che prendere in prestito forme a una natura potente, vicina ogni giorno, compagna tradita di un uomo che prima la usa e poi la devasta. Così la mano fasciata diventa «una matassa di larve intente a divorare le foglie verdi e grasse da sotto, prima di esplodere in un nero turcoce, bine nell’afa greve dell’autunno», le braccia di Big Henry si muovono lente «come i fasci di palme rachitiche piantate qua e là lungo la spiaggia, così estranee al Golfo del Mississipp­i, quando resistono agli strascichi di vento che le isole costiere hanno provveduto a frenare», e Randall che esce dal campo è «una gru del bayou, che si posa sulla palude nera senza quasi sfiorarla e poi si rialza subito in volo».

I dodici giorni verso Katrina sono anche, per Esch, una storia di formazione. La presa di coscienza di una maternità troppo pre- subita, tenuta nascosta. La stessa parabola di accettazio­ne del destino che vivrà China, incredibil­e figura di cane — è un pittbull da combattime­nto —, «bianca, splendida e regale come una magnolia in quel cesso di posto che era la Fossa, dove tutto il resto lotta con le unghie e coi denti per non morire di fame». China — «China mia, tu che annienti e purifichi, China, candore che tinge di rosso, laccio e siringa» — appartiene a Skeetah, fratello mediano, che per lei stravede: mezzo per affrancars­i in un universo povero di tutto, il cane è adorato e

protetto fino al sacrificio di sé ma anche spinto a combattere troppo presto, ancora scosso dal parto e dall’allattamen­to, per riscattare il padrone con le sue vittorie.

Addestrata ad attaccare, China rifiuta i cuccioli ma poi si perderà per loro. Donna anche lei, sorella di Esch nella maternità. Dietro di loro, un’altra figura di donna. Medea. Sono sue le storie che Esch legge nel libro che tiene infilato tra il muro della sua stanza e il letto. L’epica dei miti greci la accompagna mentre scopre sé stessa e il suo universo ordinario e imperfetto. Manny — che l’ha messa incinta senza guardarla negli occhi, nelle pause dalla relazione con un’altra — mentre parla all’orecchio con il padrone di Kilo, cane rivale di China, diventa Giasone «che tradisce Medea e chiede la mano della figlia del re di Corinto dopo che Medea per lui ha ucciso il fratello, ha tradito il padre».

Il mito non è un filtro ma parte viva dello sguardo di Esch: Medea «con la faccia arrossata e il cuore in fiamme», travolta dall’amore, senza scelta, è sua compagna e sorella. Donna viva. Il divino si fonde con l’acqua sporca della Fossa, le scatole di latta, la pioggia in un linguaggio nuovo. E come per gli aedi greci chiamati a fare eterne le gesta degli eroi così per Esch la parola diventa essenziale. Raccontare per rendere vero e tramandare: «Skeetah mi ha raccontato la storia delle ultime parole di mamma, e io gli racconterò questa. Questa era una bottiglia di liquore, dirò. E questa, questa forse era una finestra. Questo un edificio».

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