UN ESAME PER NOI
Se Trump o Putin volessero consultare l’italia sulla crisi in corso in Siria, che numero di telefono dovrebbero fare? Il vecchio aforisma di Kissinger s’addice purtroppo al limbo in cui si trova il potere esecutivo nel nostro Paese. Il premier Gentiloni guida un governo per l’ordinaria amministrazione, espressione di un partito che si definisce di opposizione; il ministro degli Esteri in carica non è neanche più parlamentare.
D’ altra parte le commissioni esteri di Camera e Senato non ci sono finché non c’è un governo; la stessa rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini, nominata da Renzi, non sa se avrà la fiducia del prossimo premier.
La crisi siriana irrompe insomma nel minuetto post elettorale dei «vincitori», e ne svela la insostenibilità. I governi servono proprio a fronteggiare situazioni impreviste o improvvise, e a difendere l’interesse nazionale. Ce ne serve dunque uno nella pienezza dei suoi poteri, per usare le parole di Mattarella. E al più presto.
Per fortuna, è lecito sperare che i missili di Usa, Regno Unito e Francia non avviino una escalation incontrollata. Incontrando pochi giorni fa il nostro nuovo ambasciatore a Mosca, Pasquale Terracciano, il leader russo Putin ha definito ciò che sta accadendo nel più realistico dei modi: «La situazione è critica, ma sotto controllo». I generali sul terreno si parlano, le «linee rosse» tra Usa e Russia sono state usate, secondo i francesi Mosca è stata addirittura informata sugli obiettivi del raid, proprio per evitare un incidente e il rischio di un confronto militare diretto.
Ma ciò non significa che ci sia meno bisogno di dare una voce all’italia. Trump, con il sostegno attivo di Parigi e Londra, avverte Russia e Iran che non possono usare la Siria come base per prendersi il Medio Oriente; che l’occidente non intende sacrificare Israele e Arabia Saudita, storici alleati; e che Assad va messo sotto controllo, perché i micidiali barili-bomba lanciati dai suoi aerei non uccidono certo meno delle armi chimiche. È in corso insomma un «grande gioco», di quelli che riscrivono i rapporti di forza internazionali, e che può avere un’influenza anche sulla situazione in Libia, in Turchia, e sui grandi flussi migratori verso l’europa. C’è dunque in palio l’interesse nazionale. Che per noi consiste innanzitutto nel recupero pieno di un ruolo dell’unione europea. Come ha scritto Franco Venturini sul Corriere, una nuova «Guerra fredda» avrebbe l’europa come teatro. È per noi vitale evitarlo.
Ai protagonisti della crisi italiana si chiede dunque di avvertire un rinnovato senso di urgenza: basta tatticismi da Prima Repubblica. Ma anche un maggior carico di responsabilità. Si sarà accorto ieri Matteo Salvini che a nessun leader europeo, neanche tra coloro che non hanno partecipato all’azione, è sfuggito il carattere «proporzionato», «appropriato», «limitato», «mirato», dell’attacco alleato. E che nessun leader italiano ha mancato di segnalare la necessità di impedire l’uso delle armi chimiche. Così che le sue prime dichiarazioni che definivano «pazzesco» l’intervento non hanno trovato concorde non solo Di Maio, potenziale alleato di governo, che ha precisato: «Restiamo al fianco dei nostri alleati»; ma nemmeno l’attuale alleato Berlusconi, che l’ha invitato alla prudenza dall’alto di una superiore esperienza internazionale, e nonostante la sua conclamata amicizia con Putin.
Per i «vincitori» del 4 marzo, ma anche per gli sconfitti, la crisi siriana è insomma un esame di maturità. Devono prendersi le loro responsabilità e devono sbrigarsi. Sarebbe davvero ridicolo se, nel momento in cui si propone un vertice tra Trump e Putin per risolvere la crisi, da noi Salvini e Di Maio non riuscissero a incontrarsi nemmeno a Vinitaly.