Corriere della Sera

UN’OCCHIATA IN PIÙ AI FIGLI SENZA DIVENTARE POLIZIOTTI

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Caro direttore, giorni fa una ragazza di 15 anni è stata travolta e uccisa da un treno nella stazione di Torino Porta Susa. Per il momento non si esclude il gesto disperato.

Si chiamava Beatrice, era sovrappeso e se ne doleva. Ebbene, sui social si è scatenato l’odio di alcuni coetanei. Hanno scritto l’inverosimi­le. Cito una sola frase: «Non sapevo che farsi mettere sotto da un treno fosse un metodo rapido di dimagrimen­to».

Ora le chiedo: i genitori non dovrebbero dare un’occhiata a cosa scrivono i loro figli minorenni sui social? Non dovrebbero pretendere la saltuaria consegna di telefonini, smartphone, tablet e ogni altro ben di Dio tecnologic­o di cui i figli si servono per apprendere e comunicare? Oppure temono di essere considerat­i impiccioni, possessivi? Alessandro Prandi

Caro signor Prandi,

Il tema è molto delicato. Ogni padre e ogni madre sa quanto i ragazzi siano gelosi del loro mondo, dei loro dialoghi e dei loro comportame­nti con gli amici. Le intrusioni dei genitori, ammesso che sia possibile metterle in atto, generano conflitti e ostilità. Perfino quando sempliceme­nte si entra nella loro camera, figuriamoc­i nei

Le lettere a Luciano Fontana vanno inviate a questo indirizzo di posta elettronic­a: scrivialdi­rettore@corriere.it loro smartphone e nei loro computer. Eppure ci sono alcuni doveri a cui ognuno di noi non può abdicare senza trasformar­si in poliziotti.

Dietro frasi come quelle che lei racconta c’è un’assenza di valori, un processo educativo che è fallito. Da parte dei genitori, da parte della scuola e della comunità a cui i giovani partecipan­o. È un compito duro, che spesso si scontra con le chiusure degli adolescent­i. Ma non si può rinunciare, a costo di perdere quell’approvazio­ne da parte dei nostri figli a cui sembriamo tenere più che alla loro educazione. A meno che alla fine distratti dalle mille cose che riteniamo più importanti, la privacy dei ragazzi non sia solo un alibi per il nostro disinteres­se.

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