La storia d’italia raccontata da Indro Montanelli
La collana Da domani in regalo il volume dedicato alle vicende del nostro Paese nel biennio 1946-48
La fine della monarchia, i lavori della Costituente, lo scontro ideologico Come l’italia riuscì a rimanere libera mentre scoppiava la guerra fredda
L’Italia, come la conosciamo, mise radici tra il 2 giugno 1946 e il 18 aprile del 1948. In quei due anni, a vederla arrancare, illudersi, sgomitare, a volte infingarda, spesso mortificata e ingannata, viene da pensare: era già tutto previsto.
Preparò le valigie per il suo ultimo re, Umberto II, una figura fragile, tra le più garbate della sua dinastia, ma oppresso dalle scelte di un padre che ci aveva servito due guerre mondiali, aveva spalancato le porte a manganelli e olio di ricino, sottoscritto le leggi razziali e inanellato errori madornali dal giorno in cui si era fregiato del titolo di re-soldato e, più tardi, di quello d’imperatore. Il sovrano venne congedato con un referendum che spaccò l’italia in due, più o meno come nelle elezioni politiche di qualche settimana fa. Umberto non diede ascolto ai consiglieri più oltranzisti che lo istigavano a posticipare l’esilio; chinò la testa di fronte a un Alcide De Gasperi insolitamente arrogante («E sta bene, domattina o verrà lei a trovare me a Regina Coeli o verrò io a trovare lei»).
Subito dopo, l’italia conobbe venti di terrorismo, tentativi di golpe e rigurgiti di guerra civile che sembravano presagire gli anni di cui stiamo rievocando oggi gli anniversari (il Sessantotto e l’assassinio di Aldo Moro nel 1978). Volessimo azzardare un altro paragone, il biennio si concluse con una batosta elettorale per le sinistre. Allora, però, erano unite in un Fronte popolare.
Ai bordi dell’arena dove si disputava il destino d’italia, stava in osservazione Indro Montanelli, giornalista non ancora quarantenne ma con molte cicatrici del mestiere: ufficiale-scrivente in Etiopia, corrispondente dalla guerra di Spagna, inviato su vari fronti; con anche un soggiorno nelle patrie galere. Quando alcuni lustri dopo s’imbarcò nell’impresa di raccontare la Storia d’italia, gli anni che lo videro partecipe poterono avvalersi, oltre che delle ricerche d’archivio e della sua penna incantatrice, di retroscena e informazioni riservate (pure gossip) appresi o vissuti dall’autore.
In quel lavoro lo assisteva un altro inviato d’allora del «Corriere della Sera»: Mario Cervi. In alcuni episodi raccontati in questo primo volume della serie riproposta dal «Corriere», come l’occupazione comunista della prefettura di Milano nel 1947, Cervi era alle prese con i suoi primi reportage. Era intrappolato nel palazzo occupato dai comunisti e Giancarlo Pajetta gli vietò di usare il telefono per comunicare con il giornale perché proprietà dello Stato, e quindi del popolo. Ne risulta una narrazione limpida e vissuta: dei fatti si percepiscono odori, colori e persino sudori.
Nella premessa al libro, scritto quando il Muro di Berlino era ancora in piedi, Montanelli fa una precisazione difficile da smentire: siamo qui, liberi di raccontarvi i fatti come avvennero, perché nell’aprile del 1948 gli italiani scelsero il mondo libero e non il salto nel buio d’oltrecortina. Si evince, tra le righe, anche un’altra opinione dell’autore, provocatoria ma non infondata: nemmeno Palmiro Togliatti sarebbe stato felice di vincere, avendo sperimentato gli anni delle purghe staliniane e intuendo il destino delle nazioni consegnate dagli accordi di Yalta del 1945 al dominio moscovita.
Tra il referendum a favore della Repubblica e il voto che consacrò la Democrazia cristiana alla guida dell’italia, si visse il travaglio per partorire quella Costituzione che, non più tardi di un anno e mezzo fa, ha visto soccombere il governo Renzi deciso a modificarla nella sostanza. Al grido: «È la più bella del mondo», il 60% degli italiani ha intimato: «Giù le mani». Tra le tante alchimie per tenere insieme le anime contrapposte nella Costituente, spicca il colpo di scena con cui Togliatti fece ingoiare ai suoi l’articolo 7 che riconosceva i Patti lateranensvolgeva si. Non a tutti, però: gli votò contro sua moglie Rita Montagnana. Le compagini tradizionali erano preoccupate per il lievitare di un nuovo partito, quello dell’uomo qualunque (il suo fondatore, Guglielmo Giannini, «insisteva nel definirlo movimento»), ma ben presto si afflosciò.
provvisoriamente la funzione di capo dello Stato il giurista napoletano Enrico De Nicola («non prendeva mai decisioni di venerdì»). Varata la Costituzione, per la carica di presidente della Repubblica venne bruciato il conte Carlo Sforza («rincorreva le gonnelle») e la carica venne offerta all’economista Luigi Einaudi, anche per distrarlo dal compito di tenere stretti i cordoni della borsa pubblica.
Era un’italia pragmatica, quella: il presidente della Confindustria Angelo Costa e il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio, quando le trattative languivano, si ritrovavano alla stazione di Bologna, salivano sullo stesso vagone letto e, approdati a Roma, l’accordo era raggiunto. Quel biennio, Montanelli lo fa rivivere come in un film.
Consapevolezza Nemmeno Togliatti sarebbe stato felice di vincere: sapeva che l’europa era divisa