Sipario su Raúl ma il castrismo non è finito
Confesso di avere creduto che la ripresa dei rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti e Cuba nel dicembre del 2015 avrebbe avuto abbastanza rapidamente conseguenze positive per la economia e la società dell’isola.
Non mi sembrava assurdo sperare che il Paese dei fratelli Castro avrebbe avuto una evoluzione non troppo diversa da quella di altri Paesi comunisti, come il Vietnam e la Cina, in cui il partito comunista ha conservato il potere, ma ha permesso e favorito la nascita di una spregiudicata economia mercantile.
Oggi, mentre Raúl Castro sta per uscire di scena, il quadro cubano mi sembra meno promettente. Vi sono stati alcuni cambiamenti. Esistono piccole aziende e l’industria del turismo ha registrato un’indiscutibile crescita. Ma il regime rimane sostanzialmente lo stesso.
Raúl ha mantenuto la promessa fatta ai suoi connazionali, sia pure con due mesi di ritardo (avrebbe dovuto andarsene in febbraio), e lascerà la presidenza delle due istituzioni da cui ha governato il Paese: Consiglio di Stato e Consiglio dei ministri. Ma conserva il comando delle forze armate e continuerà a gestire verosimilmente i servizi di sicurezza. Non potrà servirsene per fare la guerra agli Stati Uniti ma potrà garantire all’apparato poliziesco e militare del Paese l’occupazione e i privilegi di cui ha goduto sinora.
Ha un probabile erede, Miguel Díaz–canel, che è stato per qualche tempo il suo vice-presidente e sembra appartenere alla corrente più rigida e conservatrice del partito. La Cuba di Castro ha perduto da qualche anno alcuni dei suoi padrini latino-americani ma la resistenza di Maduro in Venezuela potrebbe incoraggiare Raúl a tenere le redini sul colle del Paese. Questa non è la Cuba che due anni fa ci sembrava possibile. Cerchiamo almeno di comprenderne le ragioni.
La prima e più importante è quasi certamente la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali del novembre 2016. Se la gara fosse stata vinta da Hillary Clinton, la politica cubana degli Stati Uniti non sarebbe troppo diversa da quella di Barack Obama. Ma Trump si era ripromesso, sin dai suoi primi giorni alla Casa Bianca, di essere l’«anti-obama».
Vi sono circostanze in cui niente sembra dargli tanto piacere quanto la sensazione di potersi presentare al suoi elettori come l’esatto opposto del predecessore. Ed è probabile in questa circostanza che la sua decisione piaccia a una larga fazione del partito repubblicano e persino a quei dissidenti cubani della Florida che non hanno approvato la politica di Obama.
Non è facile calcolare gli effetti che le sanzioni conservate da Trump avranno sull’economia cubana, ma è difficile sperare, in queste circostanze, che la crescita possa registrare un colpo di acceleratore.
Il Paese ha bisogno di grandi infrastrutture e quindi di grandi investimenti. Se gli Stati Uniti di Trump continueranno a trattare l’isola come un potenziale nemico, è difficile immaginare che aziende e capitali stranieri facciano costose scommesse sul futuro di Cuba.
Trump giustifica la sua posizione dichiarando di volere che il governo liberi i prigionieri politici e tratti democraticamente i propri dissidenti. Ma se l’esortazione viene da un uomo di Stato che si propone di cambiare il regime dell’isola, è difficile immaginare che Raúl e il suo successore collaborino alla propria estinzione.
Credo che esista un’altra ragione per cui il castrismo, nonostante gli sforzi di Obama, sembra continuare a godere in patria di un certo consenso. Non è necessario essere comunisti a Cuba per considerare con qualche sospetto il grande vicino settentrionale. Quando strapparono l’isola agli spagnoli, nel 1898, gli americani non le regalarono l’indipendenza. Le dettero una Costituzione che permetteva alle loro forze armate di intervenire militarmente ogni qualvolta Washington lo ritenesse necessario per la «stabilità» dell’isola. E quando rinunciarono a quel diritto conservarono a Cuba una base militare (Guantánamo) in cui possono fare legalmente ai loro nemici ciò che non potrebbero fare sul territorio americano.
Quando cacciò il «sergente Batista» dal palazzo presidenziale dell’avana, Fidel Castro conquistò una città che era diventata capitale del lusso, dell’ozio, del gioco d’azzardo e di tutte le male piante che crescono in un tale ambiente. Non è sorprendente che sia parso al suo Paese un libertador e il che castrismo, con tutti i suoi difetti, sia considerato meglio del trumpismo.
Il regime resiste: e il primo motivo è l’arrivo di Trump che si è ripromesso di disfare quanto fatto da Obama