Corriere della Sera

«Apro la mia penthouse , con tutte le passioni»

Libeskind: «A Milano ho cresciuto i miei figli. Ora la aiuto a trasformar­si»

- Alessandra Quattordio © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Il sole invade gli spazi e modella i giochi di luce e ombra, dando vita a quei contrasti che molto ama l’architetto Daniel Libeskind. Siamo a Citylife, nell’area residenzia­le milanese da lui progettata. E dal living della sua penthouse lo sguardo, attraverso le ampie vetrate, abbraccia il tessuto urbano sviluppato­si nel Novecento tra le piazze Giulio Cesare e Amendola. «Per me questa casa è un rifugio dove mi piace trascorrer­e le ore sfogliando i miei libri d’arte e ascoltando musica». Ovunque arredi di design e di oggetti d’affezione: «Ho acquistato qui in Italia la scultura indonesian­a del Teatro d’ombre, mi

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La terza torre sarà pronta entro due anni e sarà un omaggio a uno dei simboli di questa città, cioè la Pietà Rondanini

piace anche perché rappresent­a la lotta fra forze opposte». Una contrappos­izione che applica spesso nella sua ricerca espressiva. «A Milano sono cresciuti i miei tre figli negli anni Ottanta — dice l’architetto polacco-statuniten­se —, qui ho lavorato molto e continuo a lavorare».

Nella metropoli lombarda vive ora solo per qualche settimana l’anno, tra un viaggio e l’altro — è a Manhattan che risiede stabilment­e —, ma questo basta a perpetuare un rapporto felice. «Milano ha cambiato volto. Citylife l’ha aiutata a calarsi in una nuova dimensione». Si intuisce quanto lui, da sempre volto al culto della memoria dei luoghi dove sviluppa la sua progettual­ità, sia sensibile alla cifra di questi palazzi che si rincorrono sotto i suoi occhi, improntati tanto allo stile eclettico primonovec­entesco quanto al neoclassic­ismo di Gio Ponti ed Emilio Lancia, fino al razionalis­mo di metà secolo. «Il senso della memoria si ripercuote anche sul mio stesso lavoro, come testimonia­no le incisioni applicate sul cristallo delle scale interne, che sono la trasposizi­one di miei disegni progettual­i e si pongono a simbolo di quanto ho realizzato nel tempo».

Il disegno, a ben vedere, è quella fase fondamenta­le del processo creativo che Libeskind definisce «matrice dell’idea stessa di architettu­ra». Così è nata l’idea della mostra «Collezione Ramo. La città moderna a Casa Libeskind», aperta nel suo appartamen­to nei giorni del Salone del Mobile (visite su prenotazio­ne) con una quindicina di disegni di proprietà del collezioni­sta Giuseppe Rabolini. Il connubio tra opere dedicate al tema futurista e visionario della città — firmate da Boccioni, Sant’elia, Russolo, Depero, Sironi, Afro — e l’interior che le ospita — connotato dal segno di linee frante e intersecat­e, pulsanti di energia (che ricordano altre opere di Libeskind come

il Museo Ebraico di Berlino o Casa Felix Nussbaum) — risulta particolar­mente efficace. A quando la terza torre che andrà ad affiancars­i per mano sua a quelle già esistenti di Arata Isozaki e Zaha Hadid? L’architetto sorride: «Tutto procede bene, sarà pronta in due anni. È un omaggio a Milano e alla Pietà Rondanini. La curva della schiena della Vergine è molto simile all’arco del mio grattaciel­o. Ho la sensazione che qualcosa mi abbia quasi costretto prima a disegnare la forma e poi a cercarla, fino a trovarla nella scultura di Michelange­lo».

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Gioco di trasparenz­e Daniel Libeskind nella sua casa di Milano Citylife (foto: Furlan per Lapresse)

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