La Primavera compie 50 anni (ma la leggerezza è la stessa)
Un classico della generazione ribelle. Presentata la nuova versione
Mentre le barricate di auto a gambe all’aria fumavano ancora nelle strade di Parigi e a Roma le scrivanie della facoltà di Architettura erano volate, due mesi prima, dalle finestre, la Piaggio scelse di fare il suo Sessantotto.
La primavera, la stagione delle due ruote, anche in mezzo al trambusto, stava arrivando. E arrivava il Primavera: la Vespa che il marketing (parola nuovissima in Italia) aveva creato per il «target» di una generazione inquieta. Snella come la 50, agile come la «SS», il sellino lungo ovviamente biposto, era una promessa di appartenenza e di libertà.
Chiave dell’operazione fu la strategia pubblicitaria, nata un po’ a Pontedera, ma soprattutto a Firenze — nell’agenzia Leader di Gilberto Filippetti. Lo slogan per il lancio diceva, molto opportunamente, «Chi Vespa può». Ma l’anno dopo si provò ad osare di più, venne «Chi Vespa mangia le mele» ed entrò nella storia della pubblicità. Un misto di detto e non detto, tipicamente italiano, che provocava accontentando tutti. E contribuì a costruire uno dei maggiori successi della marca.
Ora il Primavera e la bonaria provocazione delle mele non erano e non divennero mai un’icona della contestazione. Non potevano esserlo. Gli hippies europei si muovevano in branco, sui loro variopinti pulmini o con mezzi di fortuna. Filosoficamente erano lontanissimi da un sellino per due e non avevano certo duecentomila lire per comprare uno scooter «privato». Così, anche se il «Chi vespa può» oggi riecheggia per noi la visione di Obama, la campagna di primavera della Vespa parlava una lingua sostanzialmente borghese. Borghesi erano le facce, le acconciature, le dolcevita e gli sguardi.
Più-che-borghese il testo dell’annuncio, trasformato in una rubrica di psicologia per mamme, vagamente in ansia. «Non è facile capire mio figlio» recitava un titolo. «Guardate il mondo con i loro occhi», rispondeva l’esperto, e «fate loro un regalo importante». La réclame entrava in circolazione su giornali borghesi o piccolo borghesi, da Grazia ad Amica, a Sorrisi e Canzoni, passando per Eva e La Domenica del Corriere. e con l’aggiunta della televisione, divenne un mix irresistibile, che sbancò tra i giovanibene, i loro fan e anche molti che compravano a rate, con spessi mazzetti di cambiali. Se, nei Caroselli di qualche anno prima, i capi dei vespisti erano stati Gianni Morandi e Edoardo Vianello, per il lancio del Primavera non solo non si chiamò un Mick Jagger locale, ma si puntò tutto sul gruppo, sulla compagnia in sella che era ormai protagonista, nella Pineta di Forte dei Marmi, ai Parioli e sotto i riflettori di una discoteca.
Tutto questo non toglie nulla al successo epocale del Primavera. Lo posiziona solamente più in alto, meno legato alla libertà di pensiero e più vicino a quella di costume.
Nei licei di città e nei bar di paese, nell’italia degli oratori e delle compagnie del muretto, chi aveva la Vespa era indiscutibilmente figo. Oltretutto andava forte, impennava. E senza casco — un pugno al cuore, quella pubblicità, vista oggi — i fortunati vespisti e le ragazze si riconoscevano bene, con i capelli nel vento.
Quando un amico, che aveva già compiuto sedici anni, partì in agosto per l’isola d’elba, io mi svegliai presto per vederlo andarsene scoppiettando, col Primavera nuovo di zecca, stracarico davanti e dietro.
Mentre suo padre dava consigli di prudenza — attento sul bagnato, occhio a chi ti sorpassa — io mi sentivo tagliato fuori dal mondo e lo guardavo come se salpasse per la Cina.