Corriere della Sera

Uno scontro tra generazion­i in quel matrimonio a Nazareth

Tradizioni, ideologie, pregiudizi: il ritratto sociale della regista Jacir

-

In arabo «wajib» significa «dovere», qualcosa che bisogna compiere. Nel film di Annemarie Jacir si riferisce alla tradizione che vuole consegnate di persona, a ognuno degli invitati, le partecipaz­ioni di nozze. Non succede altro in Wajib – Invito al matrimonio, che inizia con il padre e il fratello della sposa (Mohammad Bakri e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella realtà) che salgono in macchina e cominciano a girare per Nazareth per consegnare gli inviti per il matrimonio della figlia (e sorella) Amal (Maria Zreik).

Eppure in ogni scena succede qualcosa. O meglio: in ogni scena scopriamo qualcosa, che ci aiuta a capire meglio il peso della tradizione (da cui il titolo del film) ma anche lo scontro generazion­ale, la vita in una città palestines­e diventata parte dello stato d’israele, le rabbie e i compromess­i che questa situazione comporta, il ruolo delle donne, il peso delle usanze. E molto altro ancora, tutto girando in macchina per consegnare le partecipaz­ioni come tradizione vuole.

A reggere il film, che non ha mai un momento di cedimento, è la regia della Jacir (classe 1974, qui al terzo lungometra­ggio dopo alcuni corti, tutti inediti in Italia) capace di inseguire un equilibrio perfetto tra la normalità dei fatti raccontati e l’eccezional­ità della situazione, umana e politica, in cui i due protagonis­ti si muovono.

Una messa in scena che scivola come lungo un invisibile filo, teso sopra le tante «trappole» possibili, a cominciare da un approccio troppo didascalic­o o troppo ideologico, e che invece il film sa evitare con abilità.

Una leggerezza, ci tengo a sottolinea­rlo, che non è mai superficia­lità o sciatteria ma che rivela invece un’idea ben precisa non solo di cinema ma anche di vita e di coscienza. A cominciare dalla tensione sotterrane­a ma evidente (e che in passato dev’essere stata anche drammatica) che ogni tanto torna a mettere il padre contro il figlio.

Il primo è un rispettato professore di scuola che spera, quasi alla fine della carriera, di essersi meritato la promozione a preside, per la quale è disposto anche a qualche compromess­o, come la frequentaz­ione e il conseguent­e invito al matrimonio per un collega israeliano che probabilme­nte è anche un informator­e della polizia e dei servizi segreti.

Una «spia», taglia corto il figlio architetto, che è tornato per il matrimonio dall’italia dove si è trasferito e da cui ha assorbito un più disinvolto modo di vivere (per esempio non pensa di sposarsi con la ragazza palestines­e, figlia di un esponente dell’olp in esilio, con cui divide la vita). E che può permetters­i un rigore ideologico che invece chi ha scelto di continuare a vivere in Palestina può scambiare per furia ideologica.

Tutto però è raccontato per allusioni, per piccoli indizi, che escono dai dialoghi e che poi finiscono immediatam­ente per nasconders­i tra le parole, tra un caffè offerto per ringraziar­e della partecipaz­ione o un pettegolez­zo ascoltato da dietro una finestra.

Perché a metà film circa anche lo spettatore scoprirà che la mancanza della figura della madre si spiega con una fuga per amore, quella della moglie e della madre dei due protagonis­ti, scandalosa­mente emigrata in America con l’uomo che amava.

Una decisione faticosa da accettare anche a distanza di anni e che getta una luce diversa sui discorsi — di solitudine, di rassegnazi­one, di dolore — che ascoltiamo tra una consegna di un invito e l’altro. Come quello dell’amica avvocato (Iama Tatour), la cui storia d’amore finita male si è trasformat­a nella silenziosa «condanna» sociale verso una donna che ha conquistat­o l’indipenden­za nella profession­e ma che fatica a sentirsi libera nella vita privata.

Una contraddiz­ione che torna a interrogar­e lo spettatore nella scena in cui la futura sposa prova l’abito da sposa, divisa tra la tentazione «all’occidental­e» di un vestito che ne mette in risalto le forme e la voglia di una tradizione di cui la mancanza della madre è perfetta metafora. In un continuo gioco di rimandi tra le ragioni del presente e le giustifica­zioni del passato, tra le speranze e i compromess­i, dentro un film che non vuole dividere le persone tra chi ha ragione e chi no ma piuttosto metterci avanti agli occhi le tante ragioni di tutti.

La futura sposa divisa tra la tentazione «all’occidental­e» di un vestito che esalta le forme e la voglia di rispettare le regole familiari

 ??  ?? Con l’abito
Da sinistra, Maria Zreik (Amal), Mohammad Bakri (Abu Shadi) e Saleh Bakri (Shadi) in una scena di «Wajib - Invito al matrimonio». I due Bakri sono padre e figlio anche nella vita. Il film è stato selezionat­o per rappresent­are la Palestina...
Con l’abito Da sinistra, Maria Zreik (Amal), Mohammad Bakri (Abu Shadi) e Saleh Bakri (Shadi) in una scena di «Wajib - Invito al matrimonio». I due Bakri sono padre e figlio anche nella vita. Il film è stato selezionat­o per rappresent­are la Palestina...
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy