Corriere della Sera

IL PROCESSO (INFINITO) ALLO STATO

I misteri infiniti La sentenza sulla trattativa con la mafia ripropone il problema della reputazion­e dello «Stato» medesimo e di un senso comune genericame­nte ostile

- di Paolo Mieli

Oggi, 25 Aprile, festa della Liberazion­e, è il giorno giusto per fermarci a riflettere sulla salute dello Stato italiano. Che non è buona per colpa dei molti che da decenni attentano con noncuranza al suo buon nome o alla sua stessa integrità e per il fatto che sono pochi, troppo pochi, quelli che danno prova — non a chiacchier­e — di averne a cuore le sorti. Ma c’è poi anche una questione che attiene alla reputazion­e dello Stato medesimo. Reputazion­e danneggiat­a dal progressiv­o formarsi di un senso comune genericame­nte ad esso ostile al quale rischiano di contribuir­e talvolta anche coloro che se ne ergono a difensori.

Di cosa parliamo? Prendiamo il caso della sentenza del processo sulla «trattativa Stato-mafia» nel cui merito qui non entriamo in attesa del secondo e terzo grado di giudizio (oltreché di poterla leggere per esteso). Già adesso, però, non possono sfuggirci le ripercussi­oni che in tema di Stato tale sentenza avrà nel discorso pubblico e sui libri di storia. In che senso? Ecco in che termini ne ha riferito un giornale che — oltreché del direttore Gian Maria Vian e dei suoi giornalist­i — è la voce, per così dire, di papa Francesco, L’osservator­e Romano: la sentenza della Corte d’assise di Palermo avrebbe «stabilito in primo grado che la trattativa tra l’organizzaz­ione mafiosa Cosa Nostra e gli uomini delle istituzion­i non solo c’è stata ma ha anche toccato i massimi vertici dello Stato italiano».

P avrebberor­oprio così, secondo il quotidiano della Santa Sede (o meglio: secondo la sentenza), «i massimi vertici dello Stato» interloqui­to con l’organizzaz­ione criminale, per giunta «proprio mentre venivano assassinat­i i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro scorte, nonché cittadini inermi, vigili del fuoco e agenti di polizia, nelle stragi di Firenze e Milano e venivano fatte esplodere bombe nel cuore di Roma». Più o meno quello che, con maggiore o minore enfasi, hanno riportato quasi tutti gli organi di stampa. Ed è questa, ad ogni evidenza, una percezione destinata a restare. Anche se, come qualcuno ha notato, nella sentenza compaiono sì i nomi dei capi mafiosi e degli ufficiali del Ros responsabi­li di aver «avvicinato» i boss, ma neanche uno di un qualche appartenen­te ai suddetti «massimi vertici dello Stato italiano». L’unico, Nicola Mancino – per il quale Nino Di Matteo e gli altri pm avevano chiesto una condanna (sia pure per un reato minore: falsa testimonia­nza) – è stato assolto. Per il resto, niente nomi né cognomi.

Non è una storia nuova. L’anno prossimo, il 12 dicembre, saranno cinquant’anni dalla bomba di piazza Fontana. E saranno poco meno di cinquant’anni da quando, per spiegare l’accaduto, la casa editrice Samonà e Savelli diede alle stampe un libro, «La strage di Stato», il cui titolo è rimasto a definire quell’orribile fatto di sangue. Strage o stragi «di Stato». Sempre, dal ’69 in poi, si è creduto di individuar­e lo zampino dello «Stato» dietro qualche colpa di questo o quel funzionari­o o appartenen­te alle forze dell’ordine. Ma nomi riconducib­ili ai «massimi vertici» non ne sono venuti fuori. Mai. Nonostante ciò, «lo Stato» a poco a poco, nei nostri manuali di storia (non tutti, per fortuna), è andato prendendo le forme del possibile mandante di questa o quell’impresa delittuosa. Sempre beninteso come un’entità impersonal­e (e in qualche caso, nelle ricostruzi­oni, assumeva proprio la denominazi­one di «entità»). Nemmeno una volta che si sia riusciti ad arrivare all’identifica­zione di qualcuno che ben più di più di un ufficiale infedele ci avvicinass­e a quei «massimi vertici». Eppure si moltiplica­vano pentiti, dissociati, imputati che vuotavano il sacco e raccontava­no, raccontava­no. Ma al momento di indicare nominativa­mente qualche appartenen­te alle vette statuali di cui ha correttame­nte riferito l’osservator­e Romano, niente. E anche in questa occasione...

Qualcuno ha provato a individuar­li quei nomi. Marco Travaglio, persona più di qualsiasi altra capace di decrittare quel che scrivono i giudici, ha riassunto sul Fatto ciò che si potrebbe desumere dal dispositiv­o

Accuse vaghe È spesso considerat­o mandante di imprese delittuose, ma sempre come entità impersonal­e

dell’attuale sentenza: «i tre carabinier­i (Mori, Subranni e De Donno) sono stati condannati insieme a Bagarella e Cinà per avere trasmesso ai governi Amato e Ciampi il messaggio ricattator­io di Cosa Nostra (il “papello” con le richieste di Riina in cambio della fine delle stragi) perché lo Stato si piegasse ai mafiosi». E lo Stato, ha scritto ancora il direttore del Fatto, «si piegò». Se ne dovrebbe dedurre che la sentenza punta il dito accusatore contro Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, i quali, appunto, «si piegarono». O contro qualche innominato di pari livello che lo fece al posto loro. Innominato a cui sarebbe riconducib­ile anche la «rimozione degli uomini della linea dura» (il ministro Enzo Scotti e il direttore del Dap Niccolò Amato) «per rimpiazzar­li con quelli della linea molle» (il Guardasigi­lli Giovanni Conso, il nuovo capo del Dap Capriotti) che nel ’93 «revocarono il 41 bis a ben 330 mafiosi detenuti». «Fu quello», ha scritto ancora Travaglio continuand­o a riassumere il dispositiv­o della sentenza, «il primo di una lunga serie di regali a Cosa Nostra, proseguiti per vent’anni sotto i governi di centrodest­ra e centrosini­stra, ma purtroppo non punibili penalmente». E così anche Silvio Berlusconi (esplicitam­ente chiamato in causa per via della condanna a Marcello dell’utri) e Romano Prodi sono sistemati.

Davvero non si capisce perché i nomi degli esponenti dei «massimi vertici» del Paese al momento decisivo siano scomparsi dalle carte giudiziari­e e al loro posto sia rimasto solo soletto «lo Stato». Abbiamo scritto che un tal modo di attribuire allo Stato ogni genere di male ebbe una data d’inizio ai tempi della strage

Difesa impossibil­e Nella sua immaterial­ità, non può replicare, né nei tribunali, né nei talk show tv, né nelle piazze

di piazza Fontana (1969). In realtà – in termini meno espliciti e diretti – qualcuno aveva cominciato molto prima, nel 1947, in occasione dell’eccidio di Portella della Ginestra; successiva­mente avevamo avuto un obliquo rinvio al presidente della Repubblica Antonio Segni per il piano Solo (1964): sempre si alludeva a ordini «partiti dall’alto, da molto in alto», salvo poi sfumare il tutto al momento in cui sarebbe stato necessario circostanz­iare le accuse nelle aule di giustizia. Negli anni Settanta e Ottanta ci si accorse di questo inconvenie­nte e dagli studiosi furono introdotte nuove categorie a giustifica­re il perché la mancata identifica­zione degli statisti responsabi­li di misfatti: «Stato nello Stato», «Stato parallelo», «Doppio Stato». Ma nomi e cognomi degli appartenen­ti ai «massimi vertici» dello Stato – parallelo o doppio che fosse – non furono mai identifica­ti. Così – eccezion fatta per Giulio Andreotti e la mafia, con la stravagant­e condanna/assoluzion­e double face – i grandi accusati evaporavan­o nel nulla e nelle reti giudiziari­e restavano impigliati imputati medi e piccoli che, diciamolo, sarebbe davvero ingiusto qualificar­e ancora come «lo Stato». Anche perché, così facendo, è accaduto che lo «Stato» abbia dovuto farsi carico di una serie mostruosa di capi di imputazion­e ed entrare, aggravato da questo non lieve fardello, in tv, manuali di storia, libri, film (e, per via subliminal­e, nella coscienza di moltissimi italiani) come «mandante occulto» di orribili delitti.

Restando in tema di mandanti, il 14 novembre del 1974 Pier Paolo Pasolini pubblicò su queste colonne un celeberrim­o scritto in cui, parlando delle stragi di quegli anni, sosteneva di conoscere i nomi di chi le aveva commission­ate, ma di non poterli mettere nero su bianco dal momento che non ne aveva le prove. Fu, quell’articolo, una scossa salutare. Ma forse non immaginava, Pasolini, che nei successivi quarantaqu­attro anni la magistratu­ra italiana avrebbe annoverato una gran quantità di «pasolinian­i» i quali, senza neanche disporre della sua ispirazion­e poetica, non avrebbero esitato a puntare l’indice contro non meglio identifica­ti «alti vertici dello Stato», senza poi sentirsi in obbligo di circostanz­iare le accuse. Povero «Stato» che nella sua immaterial­ità, a differenza dei singoli individui, non può difendersi, né nei tribunali, né nei talk show, né nelle piazze. Dopo che per 50 o 70 anni lo si è indicato all’origine di più di un misfatto, non potrà certo essere «assolto» in appello. Né essere risarcito. Dovrà restarsene nei libri di storia sempre più afflitto nella reputazion­e a pagare per chi sa essere efficace nelle invettive ma non ritiene di doversi presentare all’appuntamen­to decisivo: quello dell’addebito delle colpe a un essere in carne e ossa. Eventualme­nte provvisto di identità.

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