Il delitto di Lidia Macchi Condanna dopo 31 anni
Varese, la giovane accoltellata nel 1987. La difesa: è una decisione ingiusta
Giustizia 31 anni dopo. Per il delitto di Lidia Macchi, la studentessa di Comunione e liberazione violentata e uccisa nei boschi di Cittiglio, sopra Varese, è stato condannato all’ergastolo Stefano Binda, l’ex compagno di liceo della giovane. L’uomo era finito in cella nel 2016 dopo che un’amica riconobbe come sua la grafia di una lettera anonima sul delitto.
VARESE Ci sono voluti trentuno lunghissimi anni per dare un nome all’assassino di Lidia Macchi, la 21enne trovata morta nei boschi vicino al lago Maggiore a Cittiglio, in provincia di Varese, il 7 gennaio 1987.
La Corte d’assise ha pronunciato il verdetto, condannando all’ergastolo il 50enne Stefano Binda, che frequentava la scuola della vittima e che era stato arrestato dalla squadra Mobile di Varese per una lettera riconosciuta da una testimone come scritta di suo pugno e inviata alla famiglia nel giorno dei funerali, dove figuravano riferimenti all’omicidio che solo il killer era in grado di conoscere.
Attorno a quel particolare grafologico e alla verifica dell’alibi dell’imputato — il quale si è sempre dichiarato estraneo ai fatti perché era in vacanza in montagna — si è svolto il processo, durato un anno. La lettura della sentenza è avvenuta di fronte ai famigliari della ragazza. Il caso Macchi è stato uno dei «cold case» più volte trattati dagli approfondimenti giornalistici: un delitto irrisolto al centro di un processo indiziario che ha visto le parti sfidarsi a colpi di perizie, fino alla decisione di ieri. La tesi dell’accusa era che i due avessero una frequentazione sporadica e che Lidia fosse intimamente innamorata di Stefano, una persona colta, con un fascino capace di coinvolgere con stimoli culturali, ma ai tempi del fatto dipendente dall’eroina. I vetrini contenenti il liquido seminale dell’omicida sono stati distrutti per «sbaglio» 17 anni fa, e il dna isolato in alcuni capelli nella zona pubica della ragazza dopo la riesumazione dei resti di Lidia non appartiene all’imputato.
Il dispositivo del giudice non ha riconosciuto l’aggravante dei motivi abbietti e futili ma quella della crudeltà: si è trattato quindi di un delitto d’impeto, sfociato in 29 potenti coltellate, dopo la consumazione di un rapporto sessuale, il primo della giovane, che all’epoca frequentava gruppi di Comunione e liberazione.
I difensori, molto sorpresi dalla decisione, hanno promesso battaglia in Appello: «È una sentenza ingiusta perché mancano le prove. Ora attenderemo le motivazioni, che verranno depositate tra 90 giorni». Sebbene sul caso abbia forse «pesato» anche la forte sovraesposizione mediatica del processo, il pubblico ministero Gemma Gualdi nel commentare la sentenza ha riconosciuto un ruolo importante della stampa «che aiuta a pronunciare la verità, e senza verità lo Stato italiano fatica a procedere. Bisogna credere che lo Stato c’è, come ci sono la verità e la giustizia».