L’amore e il senso della fine
L’eredità di Cavazzoni, fondatrice di Vidas
G iovanna Cavazzoni ci ha lasciato il 20 maggio del 2016, curiosamente il giorno del mio compleanno. Nel dolore della sua perdita, ho sempre pensato che vi fosse in questa coincidenza, un segno del destino. E persino un elemento programmato dalla caparbia razionalità di Giovanna che sapeva essere dolce e determinata, suadente e tenace. «Dovresti fare il presidente di Vidas». «No, Giovanna, tu sei insostituibile, unica. Noi al massimo possiamo essere tuoi discepoli». La mia resistenza era durata mesi. Lei era stata implacabile, assidua in uno strano corteggiamento, sul quale ogni tanto scherzavamo, ridendo di gusto. Ci sono persone che non si arrendono mai, che non considerano un no definitivo, un impedimento insormontabile. Giovanna era tra queste. E di ostacoli ne aveva superati parecchi, decisamente maggiori delle mie personali riserve. Non si poteva dirle di no. Alla fine era doveroso dirle di sì. Non per sottrarsi alle sue richieste, mai troppo pressanti, sempre accompagnate da un garbo antico, da un modo di parlare che poteva risultare persino irritante, fatto da parole scandite con grande lentezza, da silenzi improvvisi. Ma per la convinta adesione alla sua missione, al suo modo di concepire la vita, rispettandola, anche quando la morte è vicina e ineluttabile. Una grande lezione.
Ecco, io non mi ero reso conto, prima di conoscere Giovanna, di quanta umanità, dolcezza e profonda civiltà ci fossero in un’attività di assistenza ai malati terminali e alle loro famiglie. Ne comprendevo l’importanza certo, ma non la carica di rivoluzionaria solidarietà. Un dono di affetto autentico forse perché svincolato da una visione funzionale e materiale della vita. Un dono che può sembrare addirittura inutile, perché non c’è speranza. Invece, nel rispetto della dignità della persona, esalta i sentimenti, i legami familiari e d’amicizia. Dà senso a un’intera vita, favorisce la trasmissione di valori e sentimenti. Ridimensiona la paura della morte, ormai esorcizzata ed estrapolata in una società che stenta a ritenerla un fatto naturale, che non l’accetta, non la guarda, non pensa che vi si debba preparare. Giovanna me lo aveva fatto capire con il suo esempio quotidiano, il suo pensiero costantemente rivolto alle persone che soffrono e non debbono essere lasciate mai sole, vittime di un egoismo contemporaneo che riduce tutto a una dimensione individuale. Anche un piccolo gesto di attenzione può avere un grande significato. Episodi apparentemente insignificanti possono custodire tesori di sentimenti. Noi che per fortuna non abbiamo, come i malati terminali, i giorni contati, tendiamo a sottovalutare l’importanza di un sorriso, una mano stretta, uno sguardo non pietoso ma partecipe. L’aria che si respira è desiderata quando manca. Quando c’è, è normalità trascurabile.
Giovanna sapeva trasmettere questo amore per la vita che non si esaurisce con una diagnosi infausta. Continua nel malato e nei suoi familiari che sentono il dovere di dare al loro caro, nel limite del possibile, più vita al tempo residuo, riempiendolo di affetti, sensazioni, gioie supplementari. Prima della nascita di Vidas e della legge del 2010 sulle cure palliative, i malati terminali erano condannati a una morte civile immediata. Lasciati a casa dagli ospedali, assistiti da familiari affranti e impreparati, spesso abbandonati. Non di rado scivolavano di fatto nella condizione disumana di scarti della Sanità. Se solo si pensasse di ritornare a quegli anni quanti di noi si ribellerebbero? Quanti di noi si scandalizzerebbero? Probabilmente ci sarebbe una sollevazione generale. Giusta. Eppure negli anni in cui Giovanna cominciava la sua garbata rivoluzione civile, nessuno osava dire nulla. Non vi era alcuna sensibilità. «Non c’è più nulla da fare, dunque pensiamo agli altri, a quelli che soffrono con qualche speranza di guarigione». Un ragionamento che non avrebbe suscitato la minima critica. Nessuna grinza. Oggi, parlando di Giovanna e della sua creatura tanto amata, ci accorgiamo di quanta insopportabile ingiustizia ci fosse in quell’alzata collettiva di spalle. Non stiamo parlando di un altro secolo, ma solo di vent’anni fa. Se l’italia oggi è più civile e si è dotata di leggi avanzate — come quella sulle cure palliative del 2010 o il più recente biotestamento — lo dobbiamo a donne coraggiose e visionarie come Giovanna. Testarde fino all’inverosimile.
Giovanna amava scrivere. E Giuseppe Ceretti, autore di questo libro, era insieme il suo consigliere e revisore, oltre a essere il direttore delle pubblicazioni Vidas. Attento, rispettoso ma inflessibile nella sincerità che un grande professionista è costretto a mostrare anche verso gli amici più cari. Gli scritti di Giovanna erano dunque letti — anche dal sottoscritto — con ammirevole partecipazione, ma con occhio severo. Ebbene sono convinto che quelle pagine siano insieme un inno alla vita e un testamento spirituale. Ceretti le ha raccolte e commentate con infinita cura. Emergono, nella loro freschezza, in questo libro che racconta la vita di una persona eccezionale che amava la vita più di altri e che ha dedicato la propria vita alle vite ultime residuali di tante persone. Scusate il gioco di parole, forse persino irrispettoso. Ma non riuscirei a trovare un modo migliore per descrivere questa caratteristica identitaria della fondatrice di Vidas. Non una suora laica, non una missionaria della solidarietà. Una donna con i suoi amori, i suoi errori, le due debolezze, le sue vanità. Per nulla preoccupata di costruire la propria immagine pubblica e nemmeno così gelosa della propria dimensione privata, offerta al lettore con naturale trasparenza, anche attraverso le pagine che state leggendo.
Una personalità rara quella di Giovanna. Per tanti anni ha portato sulle sue gracili spalle il peso di una avventura solidale alla quale ha appassionato donatori e volontari. Ha bussato a tutte le porte, forse ne ha pure sfondata qualcuna. Davanti alle necessità di Vidas non guardava in faccia a nessuno. La sua era una prepotenza mite. Era infaticabile, determinata, dura. Quando è toccato a lei passare dalla parte dei malati assistiti, essere accolta in una stanza dell’hospice Vidas costruito con tanta cura e amore, è come se si fosse all’improvviso rifugiata nell’anonimato, desiderosa quasi di passare inosservata, di andarsene senza fare troppo rumore, senza pesare più di tanto sulla sua famiglia e sulle tante persone che le avevano voluto bene. Questo, se volete, è il segno inconfondibile della grandezza di un personaggio. Il tratto distintivo di chi non si risparmia e lotta quando si tratta di portar avanti la propria opera, ma sa ritrovare la misura elegante della discrezione nel tratto finale della propria vita.
Nell’universo di letture e musiche di cui cibava la propria esistenza con avidità giovanile, Giovanna conosceva le regole classiche dell’addio. Senza alcuna concessione al melodramma che amava, consapevole che l’opera si apprezza per intero e se il finale è discreto ancora di più. L’opera di Vidas è il dono alla società di una donna eccezionale nella normalità dei suoi sentimenti. Profondi, sinceri. L’opera va avanti e Giovanna è sempre con noi.
La passione Ha portato sulle spalle il peso di un’avventura che ha appassionato volontari e donatori
Amava la vita più degli altri e ha dedicato la sua alle vite ultime residuali di tante persone Non una suora laica ma una donna con i suoi amori, i suoi errori, le sue debolezze