I segreti dell’assassino e il coraggio della madre La sentenza sulla lapide con la scritta «Per te»
C’ è una fotografia. Lidia che sorride. La conosciamo così: di mezzo profilo, i capelli mossi; e quel sorriso lieve, posato, già non più da ragazza. In ogni udienza, sua mamma Paola ha tenuto davanti quest’immagine sul banco dell’aula bunker. Ha sempre guardato più lei che i giudici, gli avvocati e il killer, quello stesso Binda che fu tra i primi a correre dai Macchi per le condoglianze. Da ieri mattina, vicino a quest’immagine che è posizionata anche sulla tomba, c’è una copia della sentenza di condanna. Con due parole scritte a penna: «Per te». Le parole sono sottolineate. «Quand’era stata uccisa la mia Lidia, mi avevano nascosto molti particolari. Sapevo di qualche coltellata e non di ventinove la prima delle quali in volto; non sapevo avesse cercato di scappare, non sapevo fosse senza vestiti... Durante il processo ho dovuto affrontare di nuovo le storie dei vetrini del liquido seminale, dei peli pubici... Ma adesso la mia Lidia riposerà in pace». L’ha portata Paola con le sue mani, la copia della sentenza al cimitero. «Ero con il mio avvocato, Daniele Pizzi, ormai un figlio... Mancava mio marito, l’ho perso nel tempo. Però ho avuto la fortuna di incontrare tanta brava gente, in questi mesi: mi fermavano per strada, “siamo genitori, non s’arrenda mai”. Non mi sono arresa». Perché il caso forse è ancora aperto.
I depistaggi
Non è esercizio retorico ricordare non soltanto l’enorme, colpevole vuoto temporale tra il delitto e l’arresto del colpevole a causa di iniziali indagini mal eseguite per incapacità, sciatteria, condizionamenti, e di prove fondamentali andate perdute ugualmente per incapacità, sciatteria, condizionamenti. Bisogna ricordare l’isolamento nel quale hanno lavorato i due poliziotti della Mobile di Varese che catturarono Binda, le enormi pressioni da Varese a Roma su magistrati e consulenti, i messaggi spesso anonimi ma eloquenti inviati a chi ha scritto liberamente di Lidia Macchi, di Stefano Binda e soprattutto del mondo, quello di Comunione e liberazione, che ha unito vittima e carnefice. Nel primo periodo di detenzione, l’assassino era stato trasferito d’urgenza in un carcere più monitorato per il timore che, innescato da frasi sibilline, si potesse suicidare. Un rischio ora più che mai concreto. Binda, l’ascetico Binda dimagrito e lettore della Bibbia, custodisce e protegge segreti che chiamano in causa preti, uomini influenti della comunità locale, mariti con famiglie numerose, docenti universitari, persone ancorate a stagioni di droga e prostituzione le quali pensavano che Lidia Macchi fosse un passato lontano. Sepolto. Quand’è stato chiamato in aula, Binda ha dato l’impressione di trattenersi, di voler omettere riferimenti. Dicono che in cella abbia studiato le carte del processo. Voleva costruirsi la miglior difesa senza delegare troppo ai due legali.
Alibi, nomi, silenzi
Non hanno mai — mai — voluto commentare, quelli della cerchia del killer. Mai. L’unico
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La signora Paola: in questi mesi tanta gente mi fermava per strada dicendomi: «Siamo genitori anche noi, non si arrenda mai» d
In aula il colpevole ha sempre dato l’impressione di voler omettere nomi e riferimenti Così hanno fatto i suoi ex amici d Anche gli inquirenti si mettono a piangere Più d’uno, nonostante dense carriere, considerava questa inchiesta una ragione di vita
che s’era lasciato andare era stato don Fabio Baroncini, all’epoca guida spirituale di quel gruppo di Comunione e liberazione. Al Corriere aveva detto: «Non sono convinto che l’intera verità sia emersa». L’indomani don Baroncini aveva negato e rinnegato le sue parole ed era divenuto imprendibile. L’alibi di Binda, l’assenza nei giorni dell’assassinio per una vacanza in montagna, non è stato confermato dalle decine di ex compagni presenti e lo stesso Binda ha ripetuto di non ricordare nessuno. Tranne due amici che hanno confermato la versione. Nella presunta stanza di Binda erano in cinque. All’appello ne mancano due. Uno era denominato Matthew, l’aveva scritto lui su un’agenda. Chi è Matthew? «Non ricordo». E per quale motivo Binda aveva segnato sull’agenda la composizione della camera? «Un’abitudine dei miei viaggi» aveva risposto all’avvocato Pizzi, decisivo con i guizzi da investigatore. Se era un’abitudine perché non era avvenuto per altre vacanze a Bobbio, Parigi, Cervinia?
Madre e figlia
Ci sono inquirenti che stanno piangendo. Più d’uno, nonostante dense carriere, considerava l’inchiesta una ragione di vita. Arrivare fino in fondo, trovare il colpevole, farlo condannare. C’erano stati giuramenti a mamma e papà di Lidia. C’erano stati pomeriggi di preghiere e pensieri sulla tomba. E davvero diventa commovente ascoltare mamma Paola che in uno slancio per niente costruito — è una donna semplice, una donna stanchissima — si perde nei ringraziamenti. Li elenca uno a uno. «Ci hanno creduto e sarò loro eternamente grata». Non nomina Stefano Binda. «La mia Lidia è sempre con me. Mi ha dato e dà una forza immensa. Io sapevo unicamente una cosa, dall’inizio: un giorno ci avrebbe permesso di trovarlo. Io lo sapevo».