IL PD E IL DECISIVO POTERE DELL’AGO DELLA BILANCIA
L a causa fondante delle difficoltà che incontra la formazione del governo è una legge elettorale profondamente errata. Proponendo il Rosatellum, e rifiutando anche quegli emendamenti che avrebbero permesso una maggiore governabilità, il Pd si è assunto la principale responsabilità delle odierne difficoltà. Ma proprio l’attuale situazione di stallo offre al Pd l’occasione di uscire dal cul-de-sac in cui lo ha cacciato l’improvvida strategia della sua maggioranza interna. In questa situazione, infatti, da un lato la teoria delle coalizioni – fondata sulla logica formale della teoria dei giochi – e dall’altro un’analisi comparata di come le coalizioni di governo si formano nelle democrazie parlamentari, offrono al Pd alcune preziose indicazioni per un revirement di strategia. La teoria dei giochi indica che per raggiungere un risultato vincente – una maggioranza di governo – non è importante la dimensione dei singoli attori, quanto la loro posizione nel gioco; non la dimensione in seggi dei vari partiti, dunque, quanto l’essere il partito che porta al momento decisivo i voti necessari per formare una maggioranza. Paradossalmente, proprio un Pd sconfitto alle urne è in realtà, sia per il M5S che per il centrodestra, il portatore dei voti decisivi per formare un governo; e comunque il titolare della sola alternativa a una alleanza M5s-lega. Ne consegue che il Pd è la sola forza in grado di impedire tale alleanza, e che chiamandosi fuori si assume la responsabilità della sua eventuale nascita. La
rinuncia del Pd a utilizzare questo suo decisivo potere sarebbe dunque del tutto incomprensibile, e rappresenterebbe un tradimento dei propri elettori, stante che nessun elettore di un partito di governo vota per mandarlo all’opposizione.
La tentazione aventiniana del Pd è altrettanto incomprensibile se dal piano della logica formale si scende all’analisi comparata. Quest’ultima infatti conferma che nella formazione delle coalizioni di governo sono sovente i partiti minori ad assumerne la guida. Se così non fosse non avremmo avuto in Italia i governi Craxi e Spadolini, o i tanti esecutivi affidati ai leader delle correnti minoritarie della Dc. A ulteriore riprova basti ricordare quanti governi nella Prima Repubblica sono caduti per il ritiro del Pli, o Pri, o Psdi, partiti spesso numericamente non necessari alla sopravvivenza
della coalizione. In altre parole, se vi è un ambito in cui lo storico detto di Cuccia «le azioni si pesano e non si contano» è valido, questo è certamente la politica.
Anche un esame dei Paesi spesso retti da governi di coalizione (Spagna, Belgio, Olanda, la IV Repubblica francese, Germania e così via) conferma che la guida dell’esecutivo non è necessariamente affidata al maggiore partito della coalizione, e che i partiti minori sono tendenzialmente sovrarappresentati. Ne è prova la Germania ove i socialdemocratici all’indomani della loro più cocente sconfitta hanno ottenuto la più rilevante presenza nella storia della loro alleanza con la Cdu-csu. Non diverso è il caso dei socialisti spagnoli.
Perché allora, potendo svolgere un ruolo determinante nella formazione del governo, il Pd ha sinora scelto pregiudizialmente
la via di una opposizione cui non lo condanna né l’esito del voto popolare, né certamente il mandato dei suoi elettori? La grande letteratura ha più volte descritto la figura del giocatore perdente che, assetato di rivincita, passa di sconfitta in sconfitta fino alla totale perdizione. Non vorremmo che questo fosse il destino del Pd, che dopo le iniziali attese suscitate dall’avvento renziano ha collezionato sconfitte: dalle Amministrative alle Regionali, dal referendum alle Politiche. La difficoltà di M5S e Lega di raggiungere un accordo offre al Pd un’occasione. Se il Pd continuasse a teorizzare che gli elettori gli hanno assegnato un ruolo di opposizione commetterebbe un ultimo fatale errore. Fatale per il Pd, ma purtroppo gravemente pregiudizievole anche per i destini del Paese.