Bardonecchia 1946, i clandestini italiani
«Anche se (le guide) compiono azione contraria alla legge, sappiano almeno compierla obbedendo a una legge del cuore, discernendo e accompagnando, cioè, soltanto quegli individui che appaiono loro chiaramente in condizioni fisiche tali da sopportare il grave disagio della traversata dei monti, scegliendo altresì condizioni di clima che non siano proibitive, e non abbandonando i disgraziati emigranti a metà percorso». Era furente coi «passeurs», il sindaco di Bardonecchia, quando a metà novembre 1946 affisse quei manifesti ripresi dallo storico Sandro Rinauro ne «Il cammino della speranza». Non erano africani, quegli uomini in fuga traditi mentre cercavano di passare in Francia. Erano i nostri papà, i nostri nonni. Si trattava, scrisse l’ufficio regionale del Lavoro di Torino, di «un’enorme quantità di lavoratori provenienti da ogni regione d’italia, conciati malamente e spesso anche denutriti» che «tentavano di espatriare clandestinamente». Poveracci «male equipaggiati e affamati, individui isolati e piccoli gruppi composti anche di donne e bambini» che «venivano abbandonati dalle prezzolate guide alpine presso i valichi, spesso si perdevano tra i sentieri innevati e non di rado morivano assiderati». Passò così il Piccolo San Bernardo nel 1947, per uno strepitoso reportage, anche il nostro Egisto Corradi: «Si è levato un vento furioso. Viene di fronte, rade sibilando la neve, solleva veli di minutissimi aghi ghiacciati, è orribilmente freddo e tagliente». Denunciava un rapporto la Società Umanitaria: «La formidabile ignoranza, non solo dei pericoli propri delle condizioni meteorologiche delle montagne e dei rischi che si possono incontrare in certe zone, come nell’attraversamento dei ghiacciai, ma finanche della fatica che può costare il percorrere le interminabili mulattiere ed i sentieri, contraddistingue sempre questi emigranti che si avventurano per aspre vie di montagna addirittura con valigie, a volte non piccole né leggere o quando si tratti di donne con scarpette dai tacchi alti». Furono così tanti, a essere uccisi dalla montagna, che a Giaglione il sindaco arrivò a chiedere aiuto al prefetto di Torino «non avendo più risorse per dar sepoltura ai clandestini che morivano nell’impresa disperata di valicare le Alpi». Ma chi se le ricorda quelle tragedie sulle montagne affrontate oggi da altri disperati? Tutto rimosso. È più comodo, per chi non vuole pensieri, raccontarsi che «gli italiani non sono mai stati clandestini».