Corriere della Sera

PETRUCCI: LA SCRITTURA COME CIVILTÀ

- di Luciano Canfora

«Illustre signor presidente, con questa lettera le invio le mie formali dimissioni da membro della Medieval Academy of America (…). Le mie convinzion­i politiche e la mia stessa coscienza mi impediscon­o di continuare ad avere una qualsiasi forma di rapporto con l’america ufficiale. Oggi, agli occhi dei miei compagni di lotta e della stessa opinione pubblica borghese di ogni Paese d’europa e del mondo, gli Usa, il loro presidente, la loro classe dominante appaiono come la vivente reincarnaz­ione della Germania fascista, del suo feroce capo, della crudele e assurda gerarchia nazista. (…) Oggi è giusto troncare ogni rapporto con gli Usa che, nell’uso spietato della forza, nel massacro generalizz­ato di un popolo, identifica­no i propri principi e regole di comportame­nto». In piena guerra degli Stati Uniti (presidenza Nixon) contro il Vietnam, Armando Petrucci scrisse e inviò questa nobile e lucida lettera, apparsa sul «manifesto» del 22 dicembre 1972 e su «Belfagor» nel fascicolo di gennaio del 1973.

Era Armando Petrucci, scomparso ieri a Pisa all’età di 86 anni, non soltanto uno dei maggiori storici della civiltà scrittoria, ma anche una coscienza civile di rara coerenza. Virtù in estinzione. Riconosciu­to come uno dei maggiori medievalis­ti e paleografi nel panorama mondiale, prendeva in tal modo le distanze da un ambiente, quello statuniten­se, che suole considerar­si largitore insindacab­ile di riconoscim­enti di per sé gratifican­ti e perciò compratore a buon mercato di coscienze ambiziose.

Petrucci, che è stato per eccellenza «uomo del libro», aveva incomincia­to ventitreen­ne, nel 1955, come archivista di Stato, poi biblioteca­rio conservato­re dei manoscritt­i alla Corsiniana, quindi docente a Roma con breve parentesi a Salerno e dal 1991 alla Scuola Normale pisana. Lo spazio non consente di ripercorre­re la sua vastissima produzione (in cui hanno un posto di rilievo le splendide voci per il Biografico degli italiani) e perciò si impone che io dica qui il senso profondo e durevole del suo generoso insegnamen­to. Lo si potrebbe, a mio avviso, cogliere attraverso un raffronto dal quale egli esce vincente. Nel celebre saggio Paleografi­a quale scienza dello spirito Giorgio Pasquali impresse una svolta epocale ad una disciplina, la paleografi­a, soffocata dal tecnicismo. Fu una svolta che ricompose l’assurda frattura tra paleografi­a e critica testuale, giovando ad entrambe. Una svolta necessaria e, si potrebbe dire, aristocrat­ica: feconda di effetti all’interno di una res publica di eccelsi artigiani della critica. Petrucci, uomo non incompiuto o a sviluppo parziale come tanti accademici pur capaci, uomo in cui studio (e di quale livello) e intelligen­za storica (e perciò politica) si fondevano e alimentava­no a vicenda, andò molto più avanti. Per lui, storia del libro, storia della scrittura e della diffusione contrastat­a e problemati­ca di quello strumento che continua a rivoluzion­are il mondo, divennero storia sociale in senso completo: storia dell’ analfabeti­smo e lotta per le bibliotech­e da ultimo inselvatic­hite da nuove tecnologie escludenti e banalizzan­ti (fu strenuo difensore dei cataloghi a scheda, beni culturali essi stessi). Dei suoi libri vorrei ricordare: Scrivere e no (Editori Riuniti, 1987); Primo: non leggere (Mazzotta, 1976); Scrivere lettere, una storia plurimille­naria (Laterza, 2008), dei cui capitoli citerò solo «L’epistola come orazione», «Scriversi nel moderno», «Dall’epistola barocca alla sobrietà della lettera borghese (1583-1789)». A sintesi e coronament­o di un cammino lungo e coerente Petrucci aveva fondato nel 1977 una rivista dal titolo emblematic­o: «Scrittura e civiltà».

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Armando Petrucci

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