Corriere della Sera

Moss, la stella che brilla di notte «C’è una vita oltre i canestri»

«Sono un maniaco della profession­alità, ma svagarsi è una necessità»

- DAL NOSTRO INVIATO

Chi è

● David Moss è nato a Chicago, Usa, il 9/9/1983. Ala piccola, 196 centimetri

● Dopo i 4 anni al college con Indiana State è stato ignorato dal draft Nba (ha giocato solo la Summer League 2006 con Atlanta e quella 2009 con Portland) ed è arrivato in Europa, prima in Polonia e poi dal 2007 in Italia

● Prima stagione a Jesi, in Legadue, poi il salto in serie A con Teramo. Nel luglio 2009 firma con Siena, che prima lo dirotta a Bologna in prestito e poi lo richiama: 3 scudetti consecutiv­i, anzi quattro con quello conquistat­o a Milano (201314). Con Siena anche

3 Coppe Italia

● A Brescia da marzo 2016: promozione, poi la salvezza, ora le finali scudetto dietro l’angolo. Oggi è capitano con contratto fino al 2020 BRESCIA Sconvolgi l’universo. L’ultimo dei trentotto tatuaggi di David Moss, capitano e simbolo della sempre più sorprenden­te Germani Brescia terza in classifica, 34 anni e quattro scudetti fra Siena (tre) e Milano (uno), è una scritta sulla tibia che pare tanto una minaccia, invece non lo è. Per mostrarla deve spostare l’enorme borsa del ghiaccio che il medico gli ha fissato su un ginocchio gonfio come un pallone da basket, effetto collateral­e dell’impresa di domenica

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Il risveglio

Siena è stata un sogno, e come un sogno è finito Milano è Golden State, tutti vogliono batterla

a Montichiar­i contro L’EA7 di Pianigiani. «È solo la mia filosofia di vita, che vale anche nel basket: se stai fermo, perdi. Quindi muoviti, sconvolgi, reagisci, sorprendi, vivi».

Lei vive troppo di notte, dicono.

«Deve esistere una vita oltre il canestro, altrimenti non va bene. Chi mi conosce sa che sono un maniaco della profession­alità: allenament­o, alimentazi­one, riposo. Però penso che per un atleta lo svago, la vita vera, sia non una facoltà ma una necessità. È un allenament­o anche quello. Lo sport mi ha dato tutto, mi consente di viaggiare, vedere, vivere. Se non vivessi, sarebbe come tradire chi mi ha permesso di arrivare fin qua: penso a mia zia, una donna eccezional­e che non c’è più. Senza di lei, nulla sarebbe stato possibile».

Intanto domenica ha sconvolto il campionato, Milano veniva da 9 vittorie filate. Che significa?

«Che siamo da scudetto. Se non ci credessi non sarei qui. Questi ragazzi sono fenomenali: Landry, i Vitali, Sacchetti, tutti. E il coach, Andrea Diana, sta facendo un lavoro straordina­rio, anche se è molto giovane. Poi non dimentichi­amoci che l’anno scorso ha vinto Venezia: tu l’avresti detto, amico?».

Milano però non è la stessa Milano di un anno fa. E il suo amico Armani stavolta non accetterà scherzi.

«Intanto stavolta abbiamo vinto noi. Giorgio è stato importanti­ssimo per me, è una persona straordina­ria, di grande umanità, però ci tenevo a batterlo, per noi era un sogno. Volevo vendicare la sconfitta dell’andata, non dimentiche­rò mai il Forum pieno per metà di bresciani. La Germani ha fatto riesploder­e una passione rimasta nascosta per molti anni. Anche questo può fare la differenza».

Perché, nonostante gli investimen­ti, Milano in Italia non domina e in Eurolega arranca?

«Perché è sport, perché è basket. Contro di loro qui tutti vogliono vincere, tutti giocano la partita dell’anno, come abbiamo fatto noi. È come per Golden State in Nba: sei più forte, ok, ma contro di te tutti ce la mettono il doppio. All’estero è diverso, i soldi in Eurolega ce li hanno tutti».

Ora Brescia. Perché?

«La risposta è il tatuaggio: prova, muoviti, cambia. La dimensione è splendida, anche il club: familiare ma profession­ale. Come ambiente somiglia a Siena, rivedo la stessa magia, la città unita, il senso del miracolo, del sogno, dell’impresa».

A proposito: le capita mai di ripensarci? A quel che è stato, a come è finito.

«Un grande sogno. Che poi, come un sogno, all’improvviso è finito».

È in Italia dal 2007. L’ha vista cambiare?

«Oggi l’italia è un Paese razzista. Io sono un atleta, quindi un privilegia­to, nessuno è razzista con me. Smettono di esserlo quando capiscono chi sei, grazie ai media. All’inizio è molto diverso. Ovunque: Jesi, Milano, Siena, ma anche adesso a Brescia. I primi tempi per la strada sento sempre su di me gli sguardi. Paura, diffidenza, sospetto, disagio: Capitano David Moss, 34 anni, ala di Brescia (Lapresse) termini diversi per dire la stessa cosa, cioè razzismo».

Non vale anche per la sua America?

«Sono sincero: io parlo solo di ciò che conosco e da dieci anni passo undici mesi in Italia e uno a Chicago, con la mia famiglia. Non è corretto parlare di ciò che non si vive giorno per giorno. Però un’idea su Trump me la sono fatta: quando c’era Obama sembrava che tutto andasse bene e invece non era così. Oggi gli americani, inclusi molti atleti, sono tornati a parlare di politica, a occuparsi

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Il razzismo c’è L’italia è razzista. Io sono privilegia­to perché mi conoscono, ma all’inizio sento sguardi diffidenti

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