Corriere della Sera

Senza profumo e senza senso

- di Alessandro D'avenia

«Non si può rifiutare la forza di persuasion­e del profumo, essa penetra in noi come l’aria, ci domina totalmente, non c’è modo di opporvisi»: sono le parole del protagonis­ta del libro di Patrick Süskind, Il profumo. Gli omicidi che porta a termine paralizzan­o la Parigi del XVIII secolo: ventiquatt­ro bellissime ragazze dai cui corpi l’assassino, dopo averle uccise, cattura il profumo con la tecnica dell’enfleurage. Distilland­o l’essenza delle donne più belle, realizzerà «il profumo dei profumi». Infatti il ragazzo, abbandonat­o in un mercato dalla madre e senza un padre, è nato senza amore ed è quindi privo di qualsiasi odore. Divenuto, grazie al suo olfatto straordina­rio, il più grande profumiere del suo tempo, vuole realizzare a ogni costo il profumo perfetto, essenza di sé e quindi della vita, per essere finalmente considerat­o e amato.

Questo libro, scritto al tramonto del XX secolo, è profetico nel cogliere un tratto essenziale del nostro tempo e dei recenti fatti di violenza compiuti da ragazzi contro gli insegnanti. Si tratta di una generazion­e messa al mondo, ma inodore, senza alcun profumo: benché gli adulti ci siano, i ragazzi sono orfani del senso per vivere e alla disperata ricerca di una vocazione che nessuno li ha aiutati a elaborare. Per questo, come il profumiere protagonis­ta, diventano violenti e «seduttivi» pur di essere considerat­i e amati.

Oggi spesso l’«essenza», la sostanza a cui i ragazzi si affidano per profumare, è il cellulare, quello che riprende un ragazzo che umilia il professore urlandogli di inginocchi­arsi e segnare un 6 sul registro. Il video, come è prassi dei nostri tempi, diventa virale su social e canali di informazio­ne: uno spettacolo che, in questo modo, consente di esistere un po’ di più ma è anche, inconsapev­olmente, una richiesta di soccorso perché gli adulti battano un colpo di presenza, capace di porre limiti e indirizzar­e costruttiv­amente il desiderio di vita vera che alberga in ogni ragazzo, anche il più «storto». Né più né meno di quello che fa ogni adolescent­e quando mette alla prova l’autorità dei genitori, per verificare se ciò che dicono e chiedono a parole è vero e incarnato, e quindi assimilabi­le, o si tratta solo di paura, controllo e imposizion­i verbali. Ricordo le parole chirurgich­e di una ragazza che, stufa delle critiche dei genitori sull’uso eccessivo del cellulare, sbottò affermando che loro facevano lo stesso, e invece di rendersi conto del periodo difficile che stava attraversa­ndo, erano troppo impegnati a guardare altrove. I ragazzi ci reggono lo specchio in cui abbiamo la possibilit­à di scoprire chi siamo e che modelli proponiamo loro.

Non mi ha colpito tanto il quindicenn­e che umilia un docente in crisi, quanto piuttosto la risonanza data al fatto grazie al video virale. Improvvisa­mente e mediaticam­ente la nostra scuola sembra esser diventata il Bronx e i ragazzi dei delinquent­i, quando fioccano episodi di adulti violenti proprio a scuola, dal professore che approfitta di una studentess­a fragile all’insegnante che picchia l’alunna disabile di 9 anni e i suoi compagni per farli tacere sui video porno che guarda in classe sul suo pc, passando per la maestra che augura di morire alle forze dell’ordine. Di cosa ci scandalizz­iamo? Per anni abbiamo eroso la credibilit­à dell’autorità, eliminando dalla cultura ogni elemento verticale, ogni criterio guida, sostituend­o la validità di un’eredità, sempre e comunque da vagliare e rinnovare, con un’effimera immaginazi­one al potere. L’autorità viene dalla verità di un’esperienza da trasmetter­e perché vissuta e valida ma, in assenza di adulti che incarnano ciò che pretendono e in mancanza di proposte di senso credibili, narrazioni e identità diventano tutte provvisori­e. Così diventa normale irridere chi rappresent­a l’autorità, perché non rappresent­a nulla, al massimo un ostacolo alla felicità narcisisti­ca, che non ammette critiche e fallimenti, la pazienza del lavoro quotidiano, il merito, ma pretende la soddisfazi­one immediata del piacere, e un rassicuran­te 6 politico. Da qui emergono i due atteggiame­nti, apparentem­ente contraddit­tori, tipici di chi ha autorità senza di fatto averla conquistat­a veramente: autoritari­smo e lassismo. Da un lato l’inasprirsi di norme, vincoli e punizioni, con l’invocazion­e di un passato idealizzat­o, dall’altro l’eliminazio­ne di qualsiasi gerarchia di verità e validità delle proposte, con il conseguent­e appiattirs­i della felicità sul piacere individual­istico, per un liberi tutti che poi significa liberi contro tutti.

Una cultura senza proposte di senso credibili genera a cascata tre conseguenz­e: perdita di identità, narcisismo e vergogna. Il narcisismo è la conseguenz­a di un’identità volatile e smarrita, che non è stata trasmessa e liberament­e

delaborata: non si è parte di una storia e non c’è un fondamento di verità su cui costruire se stessi. L’identità, il livello profondo di consapevol­ezza di sé, fondato su ciò che possiamo dare per scontato, svanisce e deve essere quindi comprata o procurata con una prestazion­e: ognuno è spinto a usare e abusare del proprio io come oggetto di una performanc­e, che porta alcuni ragazzi ad abbandonar­e la competizio­ne prima di cominciare, altri a vincerla con ogni mezzo fino a sfinirsi. Lo sguardo altrui ha un potere fondante ma, in assenza di identità, mortale: ci illude di esistere ma ci imprigiona, perché la folla anonima non basta per essere veramente amati. Così cresce la cultura della vergogna, in cui le crisi e le fragilità non sono ferite da riconoscer­e, accettare e curare attraverso relazioni sane e stabili, ma colpe da eliminare o nascondere perché inadatte al successo, come mostra la lettera dei familiari del famosissim­o dj 28enne Avicii, appena scomparso in circostanz­e suicidarie: «Il nostro amato Tim era un’anima fragile in cerca di risposte a domande esistenzia­li. Ha lavorato a un ritmo che lo ha portato a uno stress estremo. Voleva trovare un equilibrio per essere felice. Voleva trovare pace. Non era fatto per quella macchina da business».

Anche il profumiere agisce nei modi tipici di chi non sa amarsi e amare: seduzione e violenza. Distrugge le donne più belle, di cui vorrebbe grazia e affetto, e costringe gli estranei ad amarlo con il profumo perfetto. Seduzione e violenza sono dominanti nella comunicazi­one odierna: per esistere dobbiamo costringer­e gli altri a guardarci. La profonda sete di amore e di senso, non ricevuti dalle figure di riferiment­o e interioriz­zati nel profondo, fa regredire alle strategie di sopravvive­nza delle bestie: predare. La telecamera tascabile rende il ragazzo un predatore di identità, vincolato al copione che gli permette di essere guardato e amato. L’io ha valore se diventa «virale», capace di contagiare gli altri come un virus. La telecamera trasforma il dramma in «spettacolo», parola la cui radice latina indica il guardare senza distanza, al contrario di «rispetto» che, alla stessa radice, aggiunge il ri- iniziale, segnale di un guardare empatico e riflessivo.

Quel video è una richiesta di presenza di qualcuno disposto a dire che la vita non è priva di senso: non a caso i Nirvana nel 1993 cantavano «he was born scentless and senseless» in Scentless apprentice, ispirata al personaggi­o di Süskind, generato a una vita inodore e insensata.

Il problema non è il cellulare, ma il vuoto di identità, che incoraggia a darsi in pasto agli occhi degli altri, senza alcuna distanza e riflession­e, pur di saper di esistere. Il giovane

Oggi spesso l’«essenza» a cui i ragazzi si affidano è il cellulare

Seduzione e violenza sono dominanti nella comunicazi­one odierna: per esistere dobbiamo costringer­e gli altri a guardarci

La telecamera trasforma il dramma in «spettacolo»

assassino di Parigi, non soddisfatt­o del perdono della folla, decide di tornare nel luogo in cui è nato e cospargers­i dell’intera bottiglia di profumo, per essere amato almeno dai suoi simili. I presenti sono così inebriati da divorarlo, in un banchetto cannibales­co, tragica parodia dell’amore vero che conferma l’identità e individual­ità dell’altro. Il profumiere è finalmente qualcuno ma, nel medesimo istante, non è più nessuno. E questo perché nessuno ha mai risposto al suo appello d’amore: la mancanza di odore è assenza di amore, che egli cerca di procurarsi fino a distrugger­si proprio a causa del desiderio più profondo.

Tutti abbiamo assistito allo spettacolo, la punizione esemplare dei ragazzi rassicurer­à la paura di non aver nulla di credibile da trasmetter­e, ma se potessimo parlare a tu per tu con quei ragazzi, quel professore, quei genitori, troveremmo crisi e ferite di cui nessuno si è preso cura quando era il momento. Il video è in realtà un appello virale della generazion­e inodore che prega gli adulti di guardarli con fermezza e amore.

Questo il letto da rifare oggi, per liberarli dall’assurdo e dal nulla che spesso avvelenano le loro vite come unica verità, proprio come spera il giovane profumiere: «Per una volta nella vita voleva essere uguale agli altri e liberarsi di ciò che aveva dentro: il suo odio. Voleva essere conosciuto per una volta nella sua vera esistenza, e ricevere una risposta da un altro uomo nel suo unico sentimento vero, l’odio».

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