Il sogno infranto di Rebecca morta su un campo di rugby
Era in coma dopo un placcaggio. Il padre: adesso gioca in cielo
Il rugby era la sua passione. Lei, una studentessa liceale di 18 anni, giocava tra i dilettanti. Durante la partita ha tentato di fermare un’avversaria. È caduta. Ha battuto la testa. L’immediato trasporto all’ospedale di Cesena. Il coma. E poi la morte. Il padre: ora gioca in cielo.
L’avversaria si stava involando verso la meta e Rebecca doveva fermarla. Come sempre. Perché quello era il suo ruolo, lo chiamano estremo, un po’ l‘ultimo baluardo della difesa. Ha tentato dunque di afferrare l’altra alla cintura per placcarla ed evitare che schiacciasse a terra la palla dei cinque punti. Non ce l’ha fatta. Rebecca è caduta all’indietro, ha battuto la testa e non si è più rialzata. Ospedale, dottori, tre giorni di macchine e di cannule. Tutto inutile, il suo cuore di rugbista ha smesso di battere ieri al reparto rianimazione di Cesena.
Una tragedia che lascia sgomenti. Diciott’anni, liceale reggiana, Rebecca Braglia aveva la grande passione del rugby. Giocava da quando ne aveva undici, prima a Reggio Emilia poi a Parma con le ragazze dell’amatori che disputa il campionato di Coppa Italia femminile regionale. Non una competizione di primo livello. Si tratta di partite nelle quali le squadre schierano sette giocatrici e si confrontano su campi ridotti della metà. Domenica scorsa erano a Ravenna e il match in questione metteva di fronte Amatori e Imola. Una sfida senza obiettivi di classifica o primati. «Lo spirito è quello, non c’è mai un agonismo violento. Sono certo: si è trattato di un normalissimo contrasto di gioco», ha assicurato il presidente dell’amatori Parma Rugby, Daniele Ragone. «Tra l’altro Rebecca era un’atleta talentuosa, di esperienza, veloce, con il senso della posizione. Non l’ultima arrivata, insomma. Prima di venire a Parma aveva giocato anche nel Colorno che è un’ottima squadra di seria A». Rebecca aveva entusiasmo, grinta e una passione tale che suo padre Giuliano, dopo la morte, ha voluto ricordarla così: «Era una rugbista e ringrazia tutti i rugbisti, ora gioca nel Campionato dei Cieli, voi dovete continuare quello terreno». Come dire, il suo amore era quello, ricordiamola giocando a rugby. Nessuna denuncia, nessun risentimento, nessuna voglia di cercare un colpevole. «Ringrazio tutti. Ora mia figlia è nella Casa del Padre e prega per tutti coloro che le sono stati vicini», ha aggiunto Braglia, uomo di fede, che nel corso dell’agonia invitava tutti a pregare «perché ormai la medicina ha esaurito le munizioni».
La domanda, però, più di qualcuno ieri l’ha fatta: si poteva evitare la tragedia? Rebecca è morta per un colpo alla testa. Qualche protezione l’avrebbe salvata? «Ricordo che i decessi nel rugby sono rarissimi e ricordo anche che è l’unico sport che prevede l’obbligo di un medico a bordo campo — ha precisato Ragone —. Il caschetto protegge dalle abrasioni più che dai colpi. No, è stata una tremenda sfortuna». Il presidente della Federazione Italiana Rugby, Alfredo Gavazzi, ha voluto tranquillizzare il movimento: «Siamo tutti toccati da questa vicenda. La Federazione continuerà a impegnarsi nel sensibilizzare tutti a comprendere come la tutela della salute dei nostri giocatori e lo sviluppo di una cultura della salute costituiscano una sfida fondamentale per la crescita del nostro sport».
In serata sono arrivate anche le parole del capitano della Nazionale, Sergio Parisse: «Cara Rebecca... Sono profondamente addolorato, mi stringo forte alla tua famiglia. Riposa in pace piccola». Il Rugby Reggio Emilia, la società dove la ragazza è cresciuta, ha invece raccolto il messaggio di papà Giuliano: «Commossi ma convinti, porteremo le sue parole in ogni partita, in ogni allenamento, in ogni sostegno, in ogni mischia. Porteremo Rebecca con noi. Fino alla meta».