La bufera e il cambio di percorso Bloccati a tre minuti dal rifugio
Salgono a sette le vittime sulle Alpi svizzere, la sesta italiana. «Sapevano del meteo»
SION (SVIZZERA) L’agente della polizia cantonale svizzera gli ha detto che «in condizioni meteo normali, con gli sci ai piedi, servono più o meno tre minuti per coprire il percorso fra il punto in cui li hanno trovati e il rifugio che dovevano raggiungere».
«Certo che a pensarci è pazzesco...» commenta lui con un filo di voce. «Lui» è Giovanni Paolucci, l’ingegnere fratello di Elisabetta, una delle vittime della tragedia di domenica sulle Alpi svizzere. Betti, come la chiamavano tutti, era un’insegnante di 44 anni ed «era una donna assennata, non sarebbe mai partita se avesse percepito il minimo rischio» giura Giovanni, che sta sbrigando le pratiche a Sion, nel Cantone Vallese, per riportare sua sorella casa, a Bolzano.
La storia di questi sette morti sulla Haute Route — la rotta fra Chamonix (ai piedi del Monte Bianco) e Zermatt (sotto il Cervino) — è nera quanto la notte che li ha uccisi. Dislivelli da paura, temperatura ampiamente sotto zero, vento fortissimo e gelido, visibilità a meno di un metro...è la cosiddetta «whiteout», la tormenta incubo di ogni scialpinista. Alle nove del mattino c’era il sole, un’ora dopo le vite di tutti e 14 erano già a rischio. All’inizio il gruppo guidato dal comasco Marco Castiglioni (59 anni e vita in Svizzera) era composto da dieci persone, nove italiani più sua moglie Kalina, bulgara. Poi, a tempesta già in corso, si sono uniti altri quattro (pare francesi).
Prima di muoversi dal rifugio di Dix, alle cinque e mezzo del mattino, la guida aveva annunciato un cambio di percorso: la meta non sarebbe più stata il rifugio previsto originariamente ma uno più vicino, la Capanna Vignettes, perché le previsioni davano l’arrivo del brutto tempo e Castiglioni voleva accorciare il percorso per schivare la tempesta. Il fatto è che la scorciatoia comportava una salita più impegnativa e a una quota più alta, lungo la parete di una forcella. Ed è proprio sulla forcella — con poca neve per scavare buche e ripararsi — che il gruppo si è ritrovato in mezzo alla tormenta, a oltre 3500 metri di altitudine. Il peggio del peggio. Con le raffiche che buttavano giù i più esili, senza cibo né acqua possibile perché era tutto ghiacciato, con la stanchezza nelle gambe, senza nessuna chance di mettersi al riparo e con il gps messo fuori uso dal ghiaccio. Tutto questo a 550 metri dal rifugio, o a tre minuti di sci, per dirla con il poliziotto. La guida deve aver capito la gravità della situazione e forse cercava un passaggio verso il rifugio quando si è allontanato finendo in un crepaccio. È stato il primo e l’unico a morire lassù. Tutti gli altri erano ancora vivi, molti in condizioni disperate, quando alle sei e mezzo di lunedì mattina è stato dato l’allarme.
Il bilancio è tragico: sette morti e due feriti molto gravi. Fra i sopravvissuti ci sono il milanese Tommaso Piccioli e i francesi che si erano uniti lungo il percorso. Nell’elenco dei morti ci sono i nomi di Betti e di Castiglioni. Ma c’è anche quello di sua moglie Kalina, 52 anni, e poi Marcello Alberti e Gabriella Bernardi, marito e moglie entrambi 53enni e altoatesini come l’amica Betti. E ancora: la parmense Francesca von Felten, 44 anni e Andrea Grigioni, che viveva nel Comasco.
Il tentativo solitario La guida caduta in un crepaccio nel tentativo estremo di cercare i soccorsi da solo