«Un dolore Ma non dite che è uno sport pericoloso»
Iplaccaggi fatti e subiti non si contano, quella particolare azione del rugby era il marchio di fabbrica di Orazio Arancio, 34 volte azzurro, esponente di quella generazione di fenomeni che decise di andare contro le consuetudini obbligando i padroni dell’ovale a spalancare alla piccola Italia le porte del Sei Nazioni. Oggi è responsabile in Italia del Rugby Seven, specialità olimpica, e consigliere nazionale del Coni. Dalla sua Catania parla con un filo di voce della morte di Rebecca: «È un momento di immenso dolore non solo per il rugby, ma per tutto lo sport italiano. Quando se ne va un ragazzo che gioca per dare sfogo alla passione, al divertimento, al piacere di fare squadra, non ci sono parole. Il rugby è una grande famiglia, oggi abbiamo tutti perso un nostro figlio».
Sport di contatto. Quindi sport pericoloso?
«Purtroppo quello che è successo è solo figlio di una casualità carogna. Può succedere per strada, a casa, in palestra durante l’ora di educazione fisica o una passeggiata in bicicletta. Il rugby non c’entra nulla, non ricordo un altro caso del genere nei 40 anni passati dentro questo sport, di sicuro è la prima volta che una tragedia così colpisce il rugby femminile italiano. Se consideriamo che in Italia ci sono 70 mila tesserati (9 mila le donne, ndr) e che ogni weekend vanno in campo almeno 30 mila giocatori, ecco che purtroppo possiamo parlare solo di una tragica fatalità».
Eppure il problema della sicurezza per i giocatori di alto livello è da tempo oggetto di grandi attenzioni.
«Non è un caso se è il primo sport ad avere istituito una commissione medica internazionale che ha messo a punto un protocollo da applicare appena, durante una gara, ci sia il sospetto che un atleta possa aver subito un trauma cranico. C’è molta attenzione nella prevenzione, molto più che in altri sport».
Dopo quello che è successo, oggi se la sentirebbe di consigliare a un genitore di mandare il proprio figlio su un campo da rugby?
«Oggi più di prima, soprattutto per il rispetto di Rebecca, che giocava da anni per passione e aveva trovato nel rugby un motivo di felicità. Lo ha chiesto suo papà Giancarlo, lo chiedo io: andiamo avanti con lei a guidarci dal paradiso dei rugbisti. Quello che mi fa molta più paura per i nostri ragazzi non è un sano placcaggio, ma la dannata sedentarietà che li svuota di passione».