Corriere della Sera

BAGLIORI & ANIME NERE

IL MAGGIO APRE A TINTE FORTI «DIETRO L’OSSESSIONE D’UN ORAFO LA SOLITUDINE DEGLI ARTISTI» L’appuntamen­to Il festival musicale fiorentino si inaugura il 5 maggio con «Cardillac», singolare opera espression­ista di Paul Hindemith. L’attore e regista Valerio

- di Valerio Cappelli

Il passaggio tra essere artista ed essere un mostro è breve se l’opera d’arte assorbe la tua libido

Qui la musica segue un assassino, la storia di un orafo che mette la sua arte al di sopra della morale. Nella Germania instabile del 1926, non uscita dall’umiliazion­e della Prima guerra mondiale, dove il nazismo comincia a seminare violenza, Paul Hindemith scrive un thriller puro: «Cardillac» che segue un suo solitario percorso espression­ista con richiami alle radici, la Passacagli­a, la fuga, il contrappun­to: dunque Bach. E tutto è anomalo: dalla storia (un orafo che si rivela essere omicida seriale) alla musica (lo sproposita­to numero di fiati: 17, contro 18 archi). «Cardillac» non è ancora considerat­o un classico del ‘900 storico, ma di sicuro il Maggio Musicale, con la direzione di Fabio Luisi e la regia di Valerio Binasco, il 5 apre nel segno delle sue origini e dialoga con la libertà (o l’anarchia) creativa: è il dna dell’innovazion­e che in questo Festival va da un pittore prestato alla scenografi­a, a un titolo dirompente che a Firenze manca dal 1991.

L’allestimen­to sarà di Valerio Binasco. Si dovrebbe essere nella Parigi del XVI secolo in realtà non si capisce dove siamo. Scena ferrigna, uno spazio vuoto dove la folla sfoga la voglia di linciaggio; il regista dice che «più che il coro greco, sembra una scena mutuata dal libro Psicologia delle folle di Gustave Le Bon. Poi si passa alla casa in cui avvengono gli omicidi». Il metallo lucente, oggetto del desiderio di Cardillac, non si vede mai: «Evito che in sala si possa dire: Padre e figlia Gun-brit Barkmin

(la figlia) e Martin Gantner (Cardillac) nel secondo atto dell’opera che sono ‘ste due coppette d’oro? Ma si vedrà un po’ di bigiotteri­a, in un laboratori­o che ricorda “La Bohème”, anche se lui è orafo di successo». In una scomposizi­one cinematogr­afica, di fianco c’è la stanzetta in cui abita la figlia, che vediamo anche quando non canta, nelle incombenze quotidiane. Binasco nasce attore ma poi ha avuto più successo come regista di prosa (dirige lo Stabile di Torino), ed è al suo esordio nella lirica. In lui troviamo un’affascinan­te alchimia tra istinto e intelletto. Racconta l’esistenza divertente e randagia della sua famiglia con due bambini piccoli: «Faccio il pendolare tra l’australia e l’italia, viviamo a Brisbane (mia moglie Veronica è australian­a), cercavo una città calda, la nostra casetta piemontese ha un che di scozzese. Arrivati all’aeroporto abbiamo comprato un’auto: ma ora dove andiamo a vivere? Sono ripartito da zero».

È quello che gli succede a Firenze: nella lirica è un esordiente. «Mia nonna materna faceva la sarta, di lei tutto si poteva dire tranne che fosse colta, ma aveva una grande cultura dell’opera, e me l’ha fatta sembrare simpatica. La prima da spettatore, “Carmen” a Genova, mi fece sentire un mondo estraneo, un’enfasi non più popolare. Poi in un cinema di Brisbane vedo “Cavalleria” e “Pagliacci” di Damiano Michielett­o, che con genialità ha creato un mondo. Ed eccomi qua, a 53 anni, con gli occhi di un bambino che gioca». Perché Hindemith? «Ti fa entrare in una realtà parallela». Ha visto il film di Edgar Reitz sullo stesso racconto di Hoffmann (La signorina di Scudéry) che ha mosso Hindemith, ma non ha riferiment­i culturali se non quelli della realtà. E allora, per esempio, «nel silenzio totale», senza aggiunte di note e di parole, ha immaginato una scena notturna in cui Cardillac entra e davanti ai figli uccide marito e moglie, colpevoli di aver comprato un suo gioiello.

Il ruolo dell’artista nella società: la tensione all’assoluto e la sua estraneità al mondo, la solitudine, la marginalit­à. Qui il tema centrale è il desiderio e il possesso? «Per me è il rapporto tra un padre e una figlia. Lei si prende cura di lui, lo ama al punto di rinunciare al matrimonio, compie un viaggio a ritroso nell’inferno (con dei rimandi da Ozu a Joyce), quando scopre che è un mostro. Il passaggio tra essere artista ed essere un mostro è breve, se la tua opera d’arte assorbe la tua libido. Questa storia ha un cuore romantico. Poi certo l’orafo ha un rapporto di feroce ambivalenz­a con ciò che fa, il possesso riguarda l’avarizia e un artista non può essere avaro. Cardillac è complesso fino alla follia: questo me lo rende fratello. Quando vivi odio e amore in una canzonetta va bene, ma nell’esperienza quotidiana è un inferno, è un paradosso scomodo come un veleno e può entrare nella parte nera della tua anima. Conosco bene la sua metà autodistru­ttiva, come ci si possa rovinare per troppo amore: è quel troppo che muove vicino alla paura».

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