«In un’italia senza veri statisti Verdi vale più di mille comizi»
Giordana e la regia de «La battaglia di Legnano»: un patriottismo condiviso
Una città a forma di cuore. Così appare Milano su una mappa datata 1158, ancora priva del Duomo e del Castello, ma segnata da una robusta cerchia di mura. «Quelle mura che il Barbarossa si appresta a radere al suolo per la seconda volta» ricorda Marco Tullio Giordana, in questi giorni impegnato nelle prove de «La battaglia di Legnano» di Giuseppe Verdi, dal 22 maggio al Teatro del Maggio Musicale con la sua regia e la direzione di Renato Palumbo. Esposta durante l’ouverture, quell’antica mappa cederà il passo a sipario aperto alla visione della città distrutta, divorata dal fuoco.
«Una Milano vinta ma decisa a risorgere — prosegue Giordana, che si avvale delle scene da Gianni Carluccio —. Pronta a mettere da parte gli odi fratricidi e stabilire con i Comuni rivali l’alleanza per sconfiggere l’invasore e dar vita a un’unità di intenti, preludio alla nascita di una nazione». Valeva per il 1176, il 29 maggio la vittoria della Lega Lombarda sul Barbarossa, come per il 1848, quando Verdi compose l’opera. L’anno delle Cinque Giornate di Milano, dei mille fuochi rivoluzionari in Europa. In quel clima di patriottismo alle stelle, l’opera debuttò il 27 gennaio 1849 all’argentina di Roma, con l’orchestra costretta a bissare il terzo atto per intero. «Il pubblico fece subito sua quella storia di riscossa contro lo straniero. Merito della musica travolgente di Verdi ma anche dell’intuito del librettista Cammarano che gli suggerì di trasporre l’originaria “Bataille de Toulouse” nella pianura lombarda ai tempi della rivolta dei Comuni, quale simbolo di una riscossa libertaria».
I primi versi, «Viva Italia! Viva Italia forte e una», non lasciavano spazio a equivoci. Eroici furori alimentati dall’intreccio amoroso, la gelosia per la bella Lidia che pare dividere Arrigo e Rolando, superata dalla lealtà e l’amicizia. «Una “meglio gioventù” di quei tempi — sorride Giordana alludendo a un suo celebre titolo —. Personaggi portatori di valori forti, necessari per una prospettiva civile superiore».
Attualizzare sarebbe stato facile. Parole come Lega o Carroccio oggi evocano ben altri significati. Ma Giordana che, salvo un «Elisir d’amore» di vent’anni fa, considera questo il suo debutto nella lirica, non si è fatto tentare da facili sirene. «Nessuna trasposizione, per prima cosa viene il rispetto dell’autore e della musica. La mia scommessa è lasciare questa storia là dove Verdi l’ha messa, in quell’epoca lontana, proprio per accrescere la sua forza, la sua contemporaneità».
Inevitabile e stridente il confronto con l’italia dei nostri giorni. «Un Paese frantumato, incapace di dialogare, di trovare un baricentro. Quel Carroccio del 1176 non era lì per separare ma per unire. Per ritrovare un senso e un’identità condivisi. Fare gli italiani è il capitolo sospeso della nostra storia. Mancano figure di statisti capaci di guardare oltre i piccoli interessi di partito, di dialogare con fair play, senza sbraitare e offendere... Ma per fortuna l’arte è sempre un gradino sopra la politica. La musica di Verdi può valere più di mille comizi. Per questo conforta vedere nei teatri anche dei giovani. Una minoranza, è vero. Ma è sempre una minoranza a scegliere nuovi modelli, a rinsaldare antichi valori».
L’opera aiuta, e aiutano anche il cinema e il teatro. Giordana, che sul grande schermo ha appena firmato l’intenso «Nome di donna», tra breve si cimenterà al Festival di Spoleto con il milanesissimo Porta. «Con Adriana Asti nei panni di Donna Fabia Fabron de Fabrian faremo rivivere la corrosiva “La preghiera” prima in milanese stretto poi in versione italiana, che ho curato io stesso».
E intanto sta scrivendo un nuovo film. «Il rosso e il nero». «Stendhal c’entra, ma il soggetto primo sarà l’italia di oggi». La divisione in colori non è casuale.
Conforta vedere i giovani nei teatri. Una minoranza, ma è la minoranza a scegliere nuovi modelli e a rinsaldare i valori
La danza come sussulto civile di una o più comunità che riscoprono, in un abbraccio, la condivisione di un momento pubblico. Il gesto politico è uno dei temi forti che punteggiano la cospicua attività di Virgilio Sieni dell’ultimo decennio. Il nuovo atto di questa commedia umana in divenire, abitata da tanti Pulcinella in marcia, è Firenze Ballo 1944/Grande Adagio Popolare, il progetto pensato dal coreografo per il capoluogo toscano, sua città natale, in funzione dell’ampio spazio antistante il Teatro dell’opera, in risonanza con la natura del Parco monumentale delle Cascine fino alla Palazzina dell’indiano. Sabato 5 in piazza Vittorio Gui, architettura e liturgia laica del movimento (danze minime e frammenti di canto) si sposano, sulla musica live di Daniele Roccato, in una coreografia di massa che mescola cittadini, performer, danzatori dell’accademia sull’arte del Gesto, fondata dall’autore a Firenze nel 2007, e di Opus Ballet. Sieni è una figura carismatica che continua a creare proseliti: durante la sua direzione della Biennale Danza a Venezia (dal 2013 al 2016), si è delineata con chiarezza la costellazione familiare di autori, giovani e più maturi, che gravitano intorno al coreografo, al suo pensiero-linguaggio. Parole come tattilità, dialogo, energia terapeutica, vicinanza, dono del proprio tempo, sono cardini di quell’atlante del gesto che Sieni va scrivendo da molto, puntando sul valore democratico di un rito collettivo capace di affratellare gli individui scissi della nostra società polverizzata. Il collante è l’ascolto dell’altro, la vicinanza fisica contrapposta alla smaterializzazione virtuale, la manualità come antidoto al consumismo. Fuori dai luoghi deputati, la danza si apre così a nuove prospettive. E torna ad appartenere all’agorà.