Troppe ambizioni metaforiche in una deformazione grottesca
Il trucco di Servillo non diventa mai vera invenzione cinematografica
suo co-sceneggiatore Umberto Contarello sembrano voler dare un senso (e una qualche spiegazione) mettendo in evidenza le due anime del Cavaliere, quella del «venditore di sogni» e quella di chi vuole «essere amato da tutti». Ma se la prima nel film trova modo di incarnarsi in alcune scene memorabili, la seconda rischia di scivolare verso quello che si era già (troppo) visto nella prima parte, un compiaciuto ritratto dell’immoralità che finisce per essere ridondante e ripetitivo.
La deformazione grottesca della realtà che altrove aveva funzionato egregiamente qui finisce per limitarsi al trucco che incartapecorisce il volto di Servillo (più padrone dei suoi mezzi in questa seconda parte, senza più fastidiose intonazioni regionali) ma non diventa mai vera invenzione cinematografica. Le trovate sono più di sceneggiatura che di regia, come il dialogo con cui si apre il film tra Berlusconi e il suo alter-ego Ennio Doris (non a caso anche lui interpretato da Servillo) o come la telefonata alla casalinga per misurare le sue doti di venditore.
Invano, però, ti aspetti l’immagine capace di andare al di là della metafora, di uscire dallo schermo e piantarsi nella memoria. Come il monopattino del Divo. Troppe volte il film sembra compiacersi della battuta («l’altruismo è il modo migliore di essere egoisti», «ho il carisma del ruscello»), della deformazione fidel siognomica (Anna Bonaiuto Santanché, De Francesco Lele Mora, Ugo Pagliai Mike Bongiorno, Fabrizio Bentivoglio Bondi) e invece di interpretare finisce solo per raccontare. Cose peraltro conosciute.
Vien quasi il dubbio che Sorrentino abbia come smarrito la via maestra che si era prefisso e abbia finito per essere sovrastato da una materia strabordante, che non riesce più a governare nemmeno in un film doppio. Se è giusto che certi personaggi restino senza spiegazione (il misterioso «dio» della prima parte o il valletto-segretario biancovestito con la calvizie di Dario Cantarelli), si fatica a capire l’uscita di scena sottotono della coppia Scamarcio/ Axen, il frettoloso accenno al consumarsi della storia tra il ministro Recchia e la bella Tamara, lo spegnersi della luce di Kira (una Smutniak che in nome del suo ruolo da «ape regina» finisce per scavalcare con eccessiva facilità i limiti ● Già presente nel primo episodio di «Loro», la giovane Alice Pagani interpreta Stella, una delle «olgettine» del giro di Sergio Morra, un imprenditore di Taranto impersonato da Scamarcio buon gusto). E quando invece il film sembra trovare un respiro più disteso, ecco che torna a far capolino un moralismo ai limiti del didascalico, come nell’insistito dialogo tra Berlusconi e una Veronica decisa a divorziare. O in quello altrettanto superficiale con una ventenne, che sembra costruito solo per permettere una battuta a scoppio ritardato (quella sull’odore del detergente per dentiere). Per non parlare dell’insistita volgarità con cui sono riprese le «olgettine» mentre cantano «meno male che Silvio c’è».
È proprio l’effetto d’insieme che lascia insoddisfatti, il disequilibrio tra le scene, l’ambizione di voler dire tutto — privato, pubblico, politica, amicizie, ambizioni, fallimenti — senza cercare di trovare un filo che quel tutto lo leghi e lo interpreti. E che un finale con troppe ambizioni metaforiche — la statua di un Cristo dolente che viene salvata dalle macerie del terremoto dell’aquila, tra la folla muta che osserva — finisce quasi per ricondurre a scherzo blasfemo. Non si capisce se monito a un mondo che sembrava insensibile alla sofferenza o sguaiato paragone alle macerie in cui si ritrova chi si credeva indistruttibile.
Un ritratto compiaciuto che finisce per essere ridondante e ripetitivo
L’autore appare sovrastato da una materia strabordante