Huppert, l’amore perverso finisce in un vicolo cieco
La verità è impossibile da dimostrare, mancano perfino le parole, diceva lo psicanalista Jacques Lacan all’inizio del documentario che nel 1974 gli dedicò Benoît Jacquot a inizio carriera. Girando Eva, ridoppiando il tradimento del racconto hard boiled del 1945 di Chase, il regista sceglie lacanianamente di non dire la verità sull’amore perverso tra una «belle de jour» legata a un mercante d’arte e un giovane finto scrittore che ha rubato un copione al suo morente padrone nel momento in cui stava per prostituirsi con lui. Storia di un multiplo di ossessioni che resta disperatamente incapace d’incanalarsi in altre zone, dato che entrambi les amants praticano i primi rudimenti di sadomasochismo.
Tradotto nel ’62 da Losey con la Moreau su un rifrangente barocco veneziano, prova generale del suo capolavoro Il servo, il romanzo, se perde le caratteristiche noir o del thriller sensuale, fatica a trovare un’altra strada.
Il gioco diventa meccanico, narrativamente prensile ma in un vicolo cieco, come negli ultimi film di Polanski e Ozon, che soffrono della stessa afasia, riescono, con eleganza, a mostrare solo la superficie di quello che accade. Isabelle Huppert come sempre è un gran jolly di cinismo: in rouge di rossetto e noir, tiene al guinzaglio Gaspard Ulliel, ex Saint Laurent, bello impossibile come il giovane Delon in pieno sole, verso un finale alla Antonioni che non vuol lasciare macchie, ma la tonalità del neutro è fra le più difficili da colorare al cinema.