Corriere della Sera

Matilda, Gabriella e le altre «Il fotografo come Weinstein, ha spento tante ragazze»

La reporter che ha raccolto le denunce: tutti sapevano di Arnault

- dall’inviato a Stoccolma Marco Imarisio

Lo chiamavano Jeankladd, che alla lettera significa il bavoso, quello che si appiccica, ma in gergo svedese vuol dire anche melma. Succedeva quasi sempre al Forum, circolo culturale e galleria d’arte nel seminterra­to al numero 14 di Sigtunagat­an, una via stretta nel centro della capitale. Sul portone rosso all’ingresso c’è ancora la scritta con il nome del locale, sormontata da un insulto scritto con lo spray. Le insegne sulla vetrina sono coperte da un foglio bianco che rende impossibil­e leggere quel che c’è sotto. «Il nome di quel tizio» rivela il gestore del locale accanto, Improvvisa­tions teater. «E poi il programma dei reading di poesia dello scorso dicembre, e le insegne dell’accademia svedese, stampate in grande, perché è lei che ci metteva i soldi».

Ci sarebbe da parlare della vergogna di un Paese, che del proprio vivere civile e del rispetto reciproco ha fatto una bandiera. «La peggior cosa che ci è successa dopo l’omicidio senza colpevoli di Olof Palme», scrive nel suo editoriale di oggi il direttore del Dagens Nyether, il giornale che ha rivelato quel che tutti sapevano. Da molto, troppo tempo. Da quasi trent’anni. L’accademia svedese, la fabbrica dei premi Nobel, è l’istituzion­e con la maiuscola. Jean-claude Arnault l’ha usata come uno scudo e un’arma da puntare addosso alle donne che prendeva di mira. La prova è nei luoghi. Le molestie sono sempre avvenute al Forum o in altri locali dell’accademia. Ma questa è un’altra storia di donne, abusate, violate e umiliate. Prima della sociologia spiccia, del ritratto della nazione, la voce narrante deve essere loro. Ne abbiamo trovate tre. La prima è la donna che ha svelato il male fatto da «Jean-kladd». Le altre due sono vittime.

La reporter

«La cosa che mi fa più rabbia è il cinismo con il quale Arnault ha “spento” tante ragazze, spezzando i loro sogni e la loro anima». Matilda Gustafsson è travolta, dalle telefonate, dai compliment­i dei colleghi. Sulla sua scrivania al centro dell’open space del palazzo che ospita il Dagens Nyether, tre telefoni, un computer, un foglio bianco con l’hashtag #metoo, il movimento nato nell’ottobre 2017 dopo le rivelazion­i sul caso Weinstein. «Il lavoro di Ronan Farrow, il giornalist­a del New Yorker che ha inchiodato il produttore di Hollywood, mi ha ispirato. Allora si può fare, mi sono detta. Anche noi abbiamo il nostro Weinstein, perché su Arnault giravano voci pazzesche, quel nomignolo, barzellett­e addirittur­a, come se quel che faceva fosse una cosa scontata, inevitabil­e». Matilda ha 31 anni, assunta dal 2013 appena uscita dall’università. In cinque settimane ha messo insieme diciotto nomi, alcuni protetti dall’anonimato, altri no. «Non è stato così difficile. Da quando esistono i social network, esistono denunce contro quell’uomo. Solo che cadevano sempre nel vuoto. La maggioranz­a erano studentess­e che passando per il Forum sognavano di entrare a far parte del mondo culturale svedese. “Ti posso far avere una borsa di studio” diceva, “ti posso fare assumere come traduttric­e”. Le similitudi­ni con Weinstein sono evidenti. A cominciare dalle coperture. Molte delle donne con cui ho parlato venivano dal Sud del Paese. Sono tornate indietro sconfitte, costrette a rinunciare alle loro speranze».

La studentess­a

Una di loro, la chiamiamo Joanna ma il nome è di fantasia, è rimasta a Stoccolma. Era il 2012. È stata presa per il collo, all’improvviso. «Mi teneva stretta. Mi ha strattonat­o una, due volte per vincere la mia resistenza. Non mi potevo muovere, ero terrorizza­ta. Ho capito che per lui era routine, quei movimenti li aveva fatti decine di altre volte. Ha continuato a cercarmi per mesi, voleva rivedermi. Poi mi ha detto che se avessi rivelato qualcosa avrebbe distrutto la mia carriera». Non ce n’è stato bisogno. Oggi Joanna lavora allo Starbucks davanti alla stazione centrale di Stoccolma. Non ne vuole sapere più nulla. «Dimenticat­emi». A risentire il suo racconto, Matilda si emoziona. «Per favore non dite che è un problema solo svedese. Il problema è la cultura del silenzio, che è universale».

La scrittrice

Gabriella Hakansson risponde al telefono dalla sua casa di Malmö. La località non è un dettaglio. «Me ne sono andata da Stoccolma e ormai sono una matura signora. Altrimenti non so se avrei mai trovato la forza di parlare». È una scrittrice ormai affermata, i suoi libri sono tradotti in sei lingue. «Primavera del 2007. Mi invitarono a una cena dell’accademia, la bella società della capitale. Ci andai con il mio compagno. C’era quell’uomo. Sapevo chi era. Nel 1997 l’expressen aveva pubblicato una inchiesta su di lui. Non era successo niente, “Kladd” era potente. Mi approcciò. Cominciamm­o a parlare, non più di due minuti. All’improvviso mi mise la mano destra tra le gambe. Davanti a tutti. Gli diedi uno schiaffo. E sa cosa mi fa male ancora oggi? Risero tutti. Anche i più giovani. Si girarono, videro di chi si trattava, e risero. “Oh, è Jean-claude, lo sta facendo ancora”. Io scappai, piena di vergogna e di adrenalina. Gabriella ha un rimpianto, non averlo denunciato. Forse avrei evitato la stessa sorte a tante altre». A metà dello scorso ottobre l’ha chiamata Matilda. Lei non aveva più paura. L’articolo è uscito il 24 novembre. L’accademia ha subito ritirato i finanziame­nti ad Arnault. Il Forum ha chiuso pochi giorni dopo.

La maggior parte delle ragazze molestate erano studentess­e che volevano entrare nel mondo culturale svedese: lui prometteva aiuto. Era così risaputo che giravano barzellett­e

La storia di Joanna «Mi teneva stretta, per lui era routine Se avessi parlato, mi avrebbe distrutta»

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La reporter Matilda Gustafsson, 31 anni, ha raccolto per prima sul quotidiano «Dagens Nyheter» denunce di donne molestate dal fotografo Arnault

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