Di Maio, le resistenze nel M5S L’ombra di Di Battista: tornare per il voto? Vedremo
Molti parlamentari non vogliono le urne: la paura di perdere il seggio Sul 2019 pesa il doppio mandato: al capo servirebbe una superderoga
Quel che lascia trapelare agli amici del Movimento Alessandro Di Battista, non è un balsamo per i dolori del giovane Di Maio. Tornerai, gli chiedono, in caso di urne anticipate o resterai negli States a fare il reporter? «Perché, si vota davvero? Vedremo». La risposta sarebbe potuta essere un semplice «no». E invece è un «vedremo». Che arriva nel momento peggiore per Luigi Di Maio, reduce da due mesi di trattative fallimentari (per colpa dei «tradimenti» di Renzi e Salvini, si difende) e ora costretto a ribadire la sua leadership di fronte a un affondo imprevisto del finora silente Beppe Grillo. Che non si limita a urlare al golpe, nell’intervista al settimanale francese Putsch. Realizzata il 29 aprile in piena trattativa con il Pd, che il fondatore non apprezzava per nulla. E così Grillo manda all’aria due mesi di paziente riposizionamento filo-atlantico e lancia l’uscita non solo dall’euro, non solo dall’unione Europea, ma addirittura «dall’europa». Parole viste come un atto quasi di sabotaggio. Tanto che tutti si affrettano a ribadire la «leadership» di Di Maio. E lui stesso, infuriato e deluso, derubrica così l’uscita del solito «burlone» Grillo: «Lo conosciamo, è uno spirito libero. Ma la linea M5S non cambia».
Sarà pure, ma non pare. Perché il Movimento sembra imploso, per la frustrazione di un governo che non riesce a nascere e per una prospettiva di ritorno alle urne che spaventa molti. Per questo ora si gioca la carta del vittimismo, del «tutti contro di noi», e si torna a vecchie parole d’ordine, come il ritorno alla piazza, l’euro, il colpo di Stato. Salvini ha chiesto a Di Maio di «vedere», nella nuova partita a poker del governo «di tregua», ma lui non si fida più: «Non ci sediamo più al tavolo di gioco con un baro». Con altre parole, lo dice anche Elio Lannutti: «Gentile Salvini, la fiducia in politica è cosa seria. Quando è perduta, difficile recuperarla».
Ma c’è dell’altro. C’è una spaccatura di fatto tra la truppa dei 5 Stelle e Di Maio. Per una ragione semplice: i loro interessi divergono. Molti parlamentari premono per restare dove sono. E anche la promessa di una ricandidatura in massa non convince: i 5 Stelle al Nord, e non solo, rischiano di perdere terreno e non ci sono seggi garantiti. Di Maio, invece, rischia di perdere tutto, se si allontana il voto. Perché c’è il divieto del doppio mandato, a lungo sbandierato come norma invalicabile e fondante, e ora rimesso in discussione. «Deciderà il garante», dicono Danilo Toninelli e lo stesso Di Maio. Ma la deroga avrebbe senso ora, a legislatura quasi non iniziata, non se si andasse al 2019. In quel caso Di Maio perderebbe legittimità e la carta Di Battista potrebbe seriamente tornare sul tavolo. Per questo Di Maio ribadisce che si deve andare a votare a giugno, nonostante sia impossibile («Ma un regolamento non può impedire il diritto di voto»). Se il voto arriverà troppo tardi la sua carriera nei 5 Stelle, salvo superderoghe, sarà finita.