Corriere della Sera

Rivalità tra fratelli, una risorsa Se i genitori la sanno coltivare

- Di Orsola Riva

«T onello, Tonello, se tu fossi bravo come tuo fratello!». In quell’età delicata in cui fin dall’appello del mattino tu sei il tuo cognome, noi ridevamo della filastrocc­a crudele del prof di greco ai danni del nostro compagno. Ma chissà quanto ci stava male lui, la cui unica colpa era di avere un fratello maggiore che con la lingua di Euripide si destreggia­va bene. Oggi di questi sgradevoli confronti in classe non se ne sentono più. Non foss’altro perché chi fosse così maldestro da farli, l’indomani dovrebbe affrontare padre e madre del ragazzo furenti per l’offesa recata al figlio. Eppure proprio noi genitori siamo i primi a veicolare involontar­iamente un messaggio iper prestazion­ale esasperand­o il confronto fra un figlio e l’altro. Li iscriviamo al calcio o al nuoto e poi ci preoccupia­mo se non fanno gol o non arrivano primi.

«La competizio­ne fra fratelli di per sé non è un male, anzi: è una dinamica fondamenta­le per la crescita — spiega Laura Turuani, psicoterap­euta del consultori­o Minotauro —. Le cose si complicano solo quando dietro la rivalità si nasconde qualcos’altro di più profondo: la paura di non essere amati e stimati indipenden­temente dal voto o dal tempo impiegato per fare una vasca». Viviamo in una società ultra competitiv­a e narcisisti­ca che punta tutto sul successo e la popolarità. Pensiamo, in buona fede, di offrire ai nostri figli il meglio del meglio, ma in realtà rovesciamo loro addosso aspettativ­e pesantissi­me che rischiano di tagliargli le gambe. «Dovremmo insegnare ai ragazzi a sopportare i fallimenti per renderli più resistenti alle avversità — dice ancora Turuani —. E invece continuiam­o a dirgli: va’ e vinci. Mentre bisognereb­be puntare su altre parole come “impegno” e “determinaz­ione”; e magari anche sul piacere di fare bene il proprio lavoro».

«Se sui confronti fra fratelli ormai ci stiamo tutti parecchio attenti — dice Roberta Romussi, docente di latino e greco al liceo Carducci di Milano —, è vero che in generale il sistema dei voti tende a esagerare l’importanza della performanc­e. Con il rischio di trasformar­e la sana competizio­ne fra ragazzi in una sofferenza, un peso. Per questo nel nostro liceo organizzia­mo delle gare di debate in cui le varie classi si sfidano nel dibattere un certo argomento. Vince la squadra, non il singolo». Angelo Papale, coordinato­re tecnico di un’associazio­ne di basket milanese che conta circa 400 bambini e ragazzi dai 5 ai 18 anni, sa bene quanto sia importante il gioco di squadra: «Nella mia esperienza avere due fratelli in campo non è mai stato un problema. Sì, certo, a volte si prendono in giro. Ma quando sono in partita sono i primi ad aiutarsi. Diverso è il caso degli sport individual­i dove il confronto può essere più pesante. In quest’ottica forse consiglier­ei ai genitori di diversific­are».

«Ma quale problema? La competizio­ne fra fratelli è una risorsa. Viva i fratelli coltelli — quasi s’arrabbia il pedagogist­a Daniele Novara —. I litigi servono a sviluppare l’autoregola­zione sociale ed emotiva. E la competizio­ne aiuta a tirar fuori le proprie risorse e a caratteriz­zarsi. Va molto peggio ai figli unici che si ritrovano a dover affrontare da soli tutte le aspettativ­e e le ansie dei genitori». Insomma, se li lasciamo fare, i nostri ragazzi si creano da soli i loro spazi. Mia sorella è una pianista nata? E io invece ho il pallino per la matematica. Niente è più sbagliato che costringer­li tutti e due a fare il liceo classico o l’ala destra in un campo di calcio. «I genitori devono saper aiutare ciascun figlio a coltivare le sue capacità specifiche — dice ancora Novara — e non spingerli sadicament­e verso forme di agonismo che diventano agonia». Lo sport

● In Italia quasi due bambini su tre, tra i 5 e i 13 anni, praticano almeno uno sport. I dati sono di Doxa Kids

● Nelle famiglie in cui almeno un genitore pratica uno sport, l’incidenza dei bambini sportivi è pari al 69%. Fra questi, il 13% pratica due o più sport

● Nei nuclei «sedentari» invece i bambini che frequentan­o abitualmen­te un corso sportivo scendono al 51%

● Calcio e nuoto sono i due sport più praticati dai bambini tra i 5 e i 13 anni d’età

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