Il grande abbraccio di Gerusalemme «Felici che il mondo sia venuto qua»
Il benvenuto del premier Netanyahu
Gli era appena morto il figlio in guerra. E non sapendo più come liberarsi di quell’incubo, a un certo punto lo scrittore David Grossman si mise a camminare. E a muoversi. E ad andare in bici. L’aveva imparato dalla mamma protagonista di «At the end of this Land», una donna che non vuole starsene ferma in casa ad aspettare cattive notizie sul suo ragazzo militare. Grossman si spostò, dunque. Uscì di casa. E arrivò alla fine di questa terra, nel punto più a Nord al limitare del Libano, e per settimane non pensò ad altro che ad andare, andare, andare… Il giro d’israele, da Gerusalemme alla Galilea. Perché l’aveva fatto? «Per staccarmi da tutto — rispose —. Dalla politica, dall’occupazione, dalla volgarità. Per ubriacarmi di fatica. Per rimuovere il legame fra me e questa terra. E in definitiva, per salvarmi».
Qualcuno con cui correre. Gerusalemme s’è scelta gli italiani. Come fa da anni con le maratone non competitive, coi motori che fanno passerella, col calcio che conta poco. L’importante è muoversi. La bici al posto di Bibi (Netanyahu), Aru Fabio invece d’abu Mazen. Endorfine senza confine. Perché non si può pensare sempre e soltanto alla Risoluzione 181 delle Nazioni Unite, per un giorno va bene anche l’edizione 101 del Giro d’italia.
Qualche capo di Hamas ci ha provato a mettere un apostrofo nero nella corsa in rosa; qualche israeliano della destra religiosa, a esigere il rispetto dello shabat; qualche «ciclista per la Palestina», a trovarsi sotto il Muro che a Betlemme taglia le case. Ma i diecimila uomini della sicurezza, alla fine, han fatto meno del temuto: ci sarà un motivo per cui la più paralizzata delle città si sia presa un sindaco come Nir Barkat, uno che ha fatto la Parigi-dakar e non si sa quante maratone di New York, che definisce Gerusalemme «un brand» e che, se gli domandano perché il Giro non tocchi anche la parte Est (araba), glissa e dice «è solo una questione tecnica, le strade sono poco asfaltate»?
Cartoline del primo giorno: il ponte ad arpa di Calatrava rosato come le pietre al tramonto, i ciclisti a registrarsi sotto il municipio traforato dai proiettili del ’67, Oliviero Toscani a scattare le facce da Giro come qualche anno fa ritraeva la razza umana, qui vicino, dietro le case palestinesi sfollate dall’esercito… Sport matters because it does not matter, scriveva il poeta Mick Imlah sui rugbisti morti in guerra, lo sport è importante proprio perché non è importante: basta una futile parata a far intuire che nella città eterna c’è posto per tutti, che il Monte del Tempio non è un percorso da scalatori della propaganda, che una fuga di gruppo non cancella il diritto al ritorno d’un popolo.
«Siamo felici siano venuti anche i ciclisti del mondo arabo», è soddisfatto il premier Netanyahu: venuti dal Bahrain e dagli Emirati, sfidando governi che nemmeno riconoscono Israele. Nessuno s’illude e si sa che tutte le guerre portano a Gerusalemme, come ripeteva il vecchio re Abdallah di Giordania: una tappa non è un tappo alla situazione e anche ieri, mentre qui si correva, a Gaza si sparava. L’insolito venerdì della festa di alcuni era il sesto venerdì della rabbia di altri. «Il circo dello sport se ne va e adesso arriva il clown», scrivono i blogger palestinesi. Dove il riferimento sarebbe a Trump, atteso fra dieci giorni a inaugurare l’ambasciata americana. In sella, si torna a correre.