Una giornata particolare
Salvini al Colle con il plurale maiestatis. Poi in camicia fa il comizio su Facebook
Sarebbe una giornata drammatica, in bilico tra cose mai viste — il governo dei populisti, il voto a luglio —; se a prevalere non fosse, come spesso in Italia, la pantomima.
Alla terza volta in un mese che si vedono sfilare davanti Nencini e la De Petris, Giulia Grillo in rosa confetto e Maurizio Martina ormai più scheletrico di Fassino, anche i corazzieri faticano a scattare sull’attenti. Così, quando nella sala stampa del Quirinale sbuca Pietro Grasso — decaduto da presidente del Senato a portavoce di un partitino —, anziché lo sbattere di tacchi si sentono le grida di Ignazio La Russa provenire dalla postazione Sky: «Stavo parlando io, e adesso Liberi e uguali aspetta che io abbia finito!». La conduttrice in studio tenta di placarlo, ma La Russa non sente ragioni: «Che avrà mai da dire Liberi e uguali!». Ulteriormente immalinconito, Grasso fa lo stesso la sua dichiarazioncina, ricordando che l’ora per il Paese è grave. In effetti.
Comincia Di Maio. Dopo due mesi vissuti da Forlani, incravattato, quasi ingessato, in cui ha ripetuto più volte il catechismo democratico — «siamo per la Nato, siamo per l’europa...» —, e dopo due giorni da capopopolo, in cui ha evocato «azioni non democratiche», stamattina si muove scanzonato, quasi ridanciano. Elenca i punti del governo che propone a Salvini — «Uno: legge anticorruzione; due: reddito di cittadinanza; tre: abolizione della Fornero» — e gli viene da ridere: «Mo’ conto pur’io», come Berlusconi, dice con l’accento campano che gli scappa quando esce dalla parte mandata a memoria. Risata generale. In sostanza, Di Maio è andato a ripetere a Mattarella quel che ha detto il giorno prima a Lucia Annunziata: lui rinuncia a Palazzo Chigi ma può allearsi solo con la Lega; Berlusconi facesse quel che gli pare.
Ed eccolo, Berlusconi, attesissimo. Visti i precedenti, i fotografi sono concentrati su ogni sua mossa. Timoroso, Salvini accenna a cedergli subito il microfono, nel caso volesse dire qualcosa lui per primo; ma il Cavaliere fa cenno di no, si cerca qualcosa nel doppiopetto, incrocia le braccia, socchiude gli occhi, si inclina in avanti sin quasi a cadere. Ai corazzieri scende in modo impercettibile ma inesorabile l’elmo sugli occhi, come un velo. Più tardi saranno diffuse foto impietose: Berlusconi durante il colloquio con Mattarella quasi si assopisce; Osho, il genio della satira, mette in
Rete l’immagine con la didascalia della Meloni, che ovviamente in romanesco tranquillizza l’anziano leader come si fa con i bambini: «Te ‘n je la fai più, eh? Mo’ annamo».
Ma ecco che si fa avanti un nuovo statista: Martina. Al suo fianco il capogruppo al Senato Marcucci, immobile in un ghigno inquietante tipo film di Dario Argento o bite notturno. Il reggente pd è il solo ad aprire al governo istituzionale. I vincitori del 4 marzo si terrebbero volentieri Gentiloni fino alle elezioni anticipate; l’unico partito che non vuole più Gentiloni è il suo. Martina condisce il paradosso con un riferimento ossessivo a un noto gioco da tavolo: «Basta con questo gioco dell’oca», «dobbiamo finirla con il gioco dell’oca». Prima di andarsene cita anche le regole: «Non possiamo ricominciare ogni volta dalla prima casella, come nel gioco...». Ai corazzieri scappa da ridere.
Salvini parla due volte. Dice la stessa cosa — incarico a lui o voto anticipato —, in modi molto diversi. Prima al Quirinale: palesemente a disagio, sudato sotto la giacca, ricorre al plurale maiestatis: «Confidiamo che il presidente ci dia modo di trovare una maggioranza che contiamo di poter trovare mettendoci in gioco personalmente...». Poi in camicia sulla pagina Facebook, rivolgendosi al popolo, a «voi che avete perso la pazienza», «ad Angelino», che non è Alfano ma un amico digitale, «Luca, Giovanni, Emanuele, Ernesto, Elisabetta», «voi che come me volete
delle elezioni la decide il capo dello Stato, non due capi partito che non hanno neppure un incarico di governo; eppure nei Palazzi si scatena il panico. Per andare davvero ai seggi in piena estate, per la prima volta nella storia repubblicana, entro domani il Viminale dovrebbe comunicare alla Farnesina l’elenco degli elettori residenti all’estero; entro due settimane andrebbero depositati tutti i simboli; insomma più che una soluzione pare una mossa per spaventare Berlusconi, e indurlo ad appoggiare dall’esterno un governo sovranista. Sugli schermi scorrono le immagini di Mattarella che passa in rassegna i vertici delle forze armate. Qualcuno teme una svolta autoritaria, qualcuno la auspica, se non altro per salvare le vacanze; ma è solo una consegna di onorificenze.
Altre consultazioni, altri consultati. Quelli del gruppo misto sono sei e parlano tutti, tra cui la rivelazione della giornata: il già leggendario presidente del Potenza calcio Salvatore Caiata, che lisciandosi i capelli lunghi sino alle spalle parla praticamente in dialetto lucano, «a nome degli onorevoli eletti con i 5 Stelle che i 5 Stelle non vogliono più», dicendo pure cose di buonsenso: non tocca a Di Maio decidere la data del voto, e non avrebbe senso votare con la stessa legge per ritrovarsi con lo stesso risultato. Alle sue spalle si danno di gomito Lupi e la deputata sudtirolese Renate Gebhard, che batte il record di sintesi: «Appiamo crande fiducia nel presidente Mattarella». «Pare il grande Paolo Villaggio quando faceva il professor Kranz» mormora un cameraman. I corazzieri non sanno se ridere o piangere.
Sfilano Fico e la Casellati, reduci dai successi delle loro esplorazioni. Poi Mattarella. È evidente lo scontro con Salvini.
Il candidato premier del M5S dopo due mesi vissuti da Forlani, in cui ha ripetuto il catechismo democratico, e dopo due giorni da capopopolo che evoca azioni «non democratiche» si muove scanzonato
Il presidente non lo nomina ma dice: qualcuno mi ha chiesto l’incarico e ha già cambiato idea; e poi non si può andare alle urne con un governo politico di minoranza. Mattarella propone un governo «neutrale, di servizio, di garanzia», e lo disegna il più possibile diverso da quello di Monti: con scadenza a sei mesi, e l’impegno dei ministri a non candidarsi. L’alternativa è votare in piena estate o in autunno, ma indebolendo il Paese proprio sui fronti che premono a Salvini e Di Maio: «Ci sono da prendere decisioni in Europa su immigrati e moneta unica». E c’è il rischio di speculazioni finanziarie. «Decidano i partiti».
In pochi secondi i partiti dicono quasi tutti no. «Governo neutrale? Per carità» twitta Salvini. Aprono solo quelli che temono il voto: Pd e, a mezza voce, Forza Italia; i contraenti del Nazareno sconfitti il 4 marzo. Arriva a mezza sala stampa il nostalgico messaggio Whatsapp di Brunetta: «Dieci anni fa giurava il Berlusconi IV, un grande governo fatto fuori con un complotto internazionale...». I corazzieri smontano. Pure il veterano Costantino Del Riccio, prefetto che è qui sul Colle dai tempi di Cossiga, è stremato. Sprezzante la Meloni: «Basta governi nati nei laboratori del Quirinale». Finalmente rientra in gioco la sinistra italiana con una spiazzante dichiarazione di Martina: «Non possiamo ricominciare il gioco dell’oca...».
Il gioco dell’oca
Da Martina un riferimento che diventa ossessivo: basta con questo gioco dell’oca