Inseguì l’armonia tra Uomo e Natura
«Èstato un paio di settimane fa, mi aveva cercato. Ormai stava molto male, spesso era assopito. Mi ha risposto Loredana, sua moglie, si erano conosciuti quando aveva recitato come protagonista de “Il posto”. E lei mi dice: sono qui in ospedale, ora sta dormendo, ma provo a mettergli la cornetta accanto all’orecchio, salutalo, ti sentirà lo stesso. Io ho cominciato a parlare, le parole che si dicono a un amico…». Il cardinale Gianfranco Ravasi sorride: «A un certo punto ho sentito la sua voce, Ermanno che mi diceva: “Ti ringrazio di esserti ricordato”. Nient’altro. Silenzio. È stato un addio molto bello».
Da quanto vi conoscevate, eminenza?
«Ci incontrammo per la prima volta a Milano, al centro culturale San Fedele, nell’ 83. Ma io desideravo conoscerlo da quando avevo 17 anni e facevo il liceo in seminario. Ci avevano fatto vedere il suo primo film, “Il tempo si è fermato”, ed ero rimasto conquistato da quest’opera sul silenzio: un silenzio bianco, denso di parole non dette: tutta la verità è detta tacendo».
A un certo punto ho sentito la sua voce e mi diceva: «Ti ringrazio di esserti ricordato» Nient’altro. Silenzio
A Gian Antonio Stella aveva detto: «Non c’è un istante della vita che non abbia significato, figurarsi l’ultimo!».
«Diceva che il destino dell’uomo è nell’eternità. Ed era profondamente legato al tema dell’incarnazione, alla presenza di Dio soprattutto nella carne malata, nella sofferenza e nella solitudine; e negli ultimi, i derelitti, gli analfabeti…vedeva il sacro all’interno del quotidiano, quasi una teofania: pensi a “L’albero degli zoccoli”, o a “Il villaggio di cartone”. E poi c’è l’aspetto dell’inquietudine…».
Nel senso delle domande?
«Sì, come in Giobbe. Alla fine Dio preferisce la sua fede che interroga alla rigidità dei teologi: “La mia ira si è accesa contro di voi perché non avete parlato di me con fondamento come il mio servo Giobbe”. Era contro una religione troppo dogmatica, ha avuto posizioni critiche. Per questo ha sentito molto vicini il cardinale Martini e, in questi anni, Papa Francesco. Con Olmi e Claudio Magris, avevamo pensato di lavorare a un progetto sul Vangelo. Avevo suggerito Marco».
Perché è il più antico e vicino alle origini del cristianesimo?
«Anche. Ma sopratutto perché in Marco il Cristo si rivela solo alla fine. E a riconoscerlo chi è? Un pagano, il centurione. Gli era affine questo discorso del nascondimento come sede dell’epifania del divino. Parlavamo per ore e ogni volta era come se ci fossimo appena sentiti. Un’amicizia intensa, rara».
Cosa le resta?
«Mi ha insegnato che la fede è una riposta che costa e si deve conquistare ogni giorno: la vittoria sul dubbio è la vera affermazione del credere. Avevamo in comune l’ammirazione per Andrej Tarkovskij. Il tema della kenosis, lo svuotamento di sé. Nessuna alterigia intellettuale, ogni persona è degna di attenzione. Vede, Ermanno era anzitutto un uomo buono. Aveva lo sguardo chiaro e luminoso di chi si china sempre per cercare di comprendere, prima di giudicare».