Il signor Quaranta
Il signor Quaranta sente arrivare l’infarto e stringe le mani sul volante. Chi ci è passato racconta che in quei momenti ti scorre la vita davanti. Ma il signor Quaranta non ha tempo per pensare alla sua vita. Sta guidando uno scuolabus pieno di bambini e deve occuparsi delle loro. Con un sforzo di lucidità che è un miracolo d’amore, quest’uomo di sessantacinque anni rallenta l’andatura, si destreggia nel traffico dell’ora di punta e accosta il pulmino ai bordi della carreggiata. Solo a quel punto spegne il motore e muore.
Succede a Fasano, provincia di Brindisi. E d’improvviso sbiadiscono gli sguardi di modesto ingegno e ingiustificata ambizione che sfilano davanti ai microfoni del Quirinale, i pettegolezzi cinici che affollano i siti preferiti dai burattinai del potere, le bullaggini di papponi e ras di quartiere che spadroneggiano sui treni e nei bar come se le cose di tutti appartenessero a loro. L’intera cronaca della giornata viene inghiottita in un buco nero di vacuità e sotto la luce rimangono i gesti muti delle persone vere. Il barista e la ragazza che hanno denunciato il clan Casamonica, nonostante le minacce e le botte ricevute. Le due poliziotte che ieri consolavano una barbona fuori dalla stazione Termini. E lui, il signor Sante Quaranta, questo gigante di cui nessuno scriverà mai la biografia. Professore emerito della materia più ostica e meno praticata: prendersi cura di qualcuno o qualcosa che non sia sempre e soltanto se stessi.