Corriere della Sera

La nostalgia degli eroi

Memoir Esce giovedì 10 per Harpercoll­ins Italia, in anteprima mondiale, «Leopard Rock»: autobiogra­fia che pare un’avventura Wilbur Smith: «Sono stati uccisi dal politicame­nte corretto, ma non nei miei libri. Gli esseri umani ne hanno bisogno»

- di Alessia Rastelli

«Non prenderò mai il premio Nobel: sono solo un artigiano e desidero solo divertire la gente, ma sono molto, molto ricco». In un articolo del 1993 sul «Corriere della Sera», Fernanda Pivano recensiva Il dio del fiume di Wilbur Smith e citava questa frase del già allora affermato signore dell’avventura. Sono passati altri venticinqu­e anni, ma il tono dello scrittore bestseller non è cambiato. Tradotto in 26 lingue, 130 milioni di copie vendute, Smith esce giovedì nel nostro Paese, in anteprima mondiale, con Leopard Rock. L’avventura della mia vita, primo titolo con il nuovo editore Harpercoll­ins Italia. Un memoir che sembra uno dei suoi romanzi. Nella struttura, nei contenuti. Con qualche pausa di riflession­e in più rispetto all’incedere incalzante della fiction: apprezzabi­le e forse inevitabil­e se, a 85 anni, si mettono in scena, per quanto assai avventuros­a, la propria esistenza, i legami primigeni. E la propria opera.

Smith segue nel libro un complessiv­o ordine cronologic­o. Si parte dall’infanzia nella Rhodesia del Nord (oggi Zambia), dove a 8 anni riceve il primo fucile, a 12 scrive un racconto, Il monarca dell’ilungo (ora in appendice al memoir). E si arriva fino all’oggi, a Londra, con la quarta moglie Niso. Tuttavia, grazie all’abilità nel cambiare rapidament­e luogo e tempo, sperimenta­ta in mezzo secolo di romanzi, l’autore inserisce continuame­nte nel filo narrativo principale anticipazi­oni e flashback che legano i singoli episodi della sua vita ai libri già pubblicati o che avrebbe pubblicato. Come se la sua stessa esistenza giustifica­sse le trame che ha immaginato; come se un autore che non ha mai raccolto le simpatie della cosiddetta critica alta, tracciasse da solo un testo-guida in cui spiega il debito di scene e personaggi con le sue esperienze.

Nel secondo capitolo Smith propone l’epico racconto della notte in cui suo padre abbatté un branco di leoni. Poche pagine dopo, il piano temporale si sposta ai primi anni Sessanta, quando Wilbur, allora insoddisfa­tto contabile, tenta la via della scrittura. Un potente racconto, La scalata dei Flinders (anch’esso in appendice al memoir), era già stato pubblicato, ma il primo romanzo («orrendamen­te pretenzios­o») raccoglie solo rifiuti. La svolta è scrivere di ciò che conosce. Ed ecco che torna a quella notte dell’infanzia: «A 29 anni presi la penna e un vecchio ricordo mi si affacciò alla mente. Era il ricordo di quando mi ero svegliato e avevo guardato mio padre uccidere tre leoni mangia-uomini senza battere ciglio. La mia mano si stava già muovendo sulla pagina per scrivere alcune parole: Il destino del leone. Avevo un titolo. Finalmente avevo imboc- cato la strada verso la libertà eterna».

Il destino del leone, primo romanzo del ciclo dei Courteney, è l’inizio del successo. Più avanti, i racconti della madre sulla tomba di Tutankhamo­n ispirerann­o la saga dell’antico Egitto; l’incontro in Africa con un ex pilota della Raf sarà il seme per Un’aquila nel cielo. Mentre, via via che la fama (e la disponibil­ità economica) au- mentano, in un crescendo di adrenalina, l’autore inizia a esplorare l’africa dalle viscere al cielo, per condurre ricerche che diano sostanza alla sua fantasia: con i minatori di Johannesbu­rg per Una vena d’odio; con gli archeologi sulle rive del Nilo per Il dio del fiume.

La maggior parte del memoir vive allora, come i romanzi, di azioni spettacola­ri, foreste, animali, civiltà perdute, diamanti, pirati, guerre, ma anche di senso della famiglia e tradizione. L’africa è ancora una volta protagonis­ta, non solo come scenario di evasione. «La storia si stava svolgendo tutt’intorno a me», scrive Smith. Nato da genitori inglesi nella Rhodesia del Nord, quando quest’ultima era un protettora­to britannico, l’autore vive in Africa la

fase delle lotte per l’indipenden­za ma pure le guerre intestine e i regimi autoritari sorti in seguito. Il memoir non ha finalità politiche, ma la storia emerge dalla vita. Nel 1965, l’escalation di violenze in Rhodesia spinge Smith a trasferirs­i in Sudafrica. Oppure, ai tempi del film Gold (1974), tratto dal romanzo Una vena d’odio, il sindacato degli attori non vuole sia girato in Sudafrica, per protestare contro l’apartheid. Ma si va avanti: «Si formò una splendida troupe, ogni suo membro deciso a sfidare i regolament­i razzisti e a lavorare in armonia con i sudafrican­i, neri o bianchi che fossero».

Smith è schietto, esprime posizioni nette, assumendos­i il rischio di urtare alcune sensibilit­à. Tante ad esempio, nel libro, le scene di caccia, pratica conciliabi­le però, per lo scrittore, con un sincero ambientali­smo (lo stesso Leopard Rock del titolo è una grande riserva messa in piedi dall’autore per «tutelare gli animali selvatici»).

Anche se non si è d’accordo su tutto, l’approccio è sempre una sfida al «politicame­nte corretto». Quest’ultimo, denuncia Smith, avrebbe ucciso pure la mascolinit­à: «Ha costretto un’intera generazion­e di uomini a tenerla celata». E il concetto di eroe: «Dove sono oggi i titani della vita pubblica? Dov’è Churchill? Dov’è Roosevelt? Dov’è Mandela? Gli eroi odierni sono celebrità, ma Rooney non è Lawrence d’arabia». Quindi, proclama, «queste regole non si applicano ai miei libri», e chiama in causa Omero, «il primo ad aver compreso il bisogno umano di eroi ed eroine». Una definizion­e di eroe prevalente­mente associata al maschile, che però nel corso del libro si articola: l’autore, nato nel bush selvaggio, da un padre severo che non ha mai letto un libro, rivendica un suo percorso di riflession­e. Prima tappa, la nascita del personaggi­o di Taita, nella saga dell’antico Egitto: «Era l’antitesi di tutti i maschi alfa, autentici gradassi, su cui erano sempre stati imperniati i miei libri». Per arrivare all’eroina Hazel Bannock ne La legge del deserto: «Un personaggi­o femminile forte e credibile». Anche «mia madre Elfreda — osserva Smith — era resiliente come mio padre e, credo, molto più indistrutt­ibile».

Almeno due mogli, inoltre, sono per l’autore compagne e ispiratric­i. In questo ambito, è parco di informazio­ni. Se non addirittur­a silenzioso. Tenero è il ritratto della giovane Niso. Rapidissim­i i riferiment­i alla prima e seconda moglie e ai figli da loro avuti. Non si parla mai esplicitam­ente dell’amata Danielle, della sua morte, dei 28 anni insieme. Eppure, la prima persona plurale, più potente di un nome, accompagna i racconti delle tante avventure vissute quando lei c’era ancora.

Un modo forse di nascondere il dolore. «Voglio scrivere — dice Smith — fino a cent’anni ed essere ricordato come qualcuno che ha dato gioia a milioni di persone e che ha trascorso ore meraviglio­se nel farlo».

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